giovedì 7 ottobre 2010

Borealis

 

 

aurora_boreale ~BorealiS*~

 

 

 

 

 

Borealis.

Anno: 1150- Gennaio. Luna del Lupo.

19:50 hrs.

 

 

«Ritorniamo! Siamo ormai lontane dal Convento.» Parlò una voce aggraziata, accolta nel suo reclamo di preghiera.

Il vento s’infiltrava, spirando nei suoi lamenti mortali, e si chiedeva come mai del suo abisso mancato; semmai qualcun l’avesse ricolmato al passaggio.

«Ritorna.» Come mai, ancora, il vento passa a lavare quegli animi puri? Come s’avessero altro da cancellare, come se sul quel foglio bianco di fragile cera s’allargasse una macchia da dover ripulire. Un astuto sentore d’aghi fra la pelle d’alabastro, il filo scarlatto inoltrato nella cruna saranno forse i silenti eoni, spettatori, dell’incanto smarrito? Che forse non è proprio smarrito…

La temperatura era stazionaria sui tre gradi. Il sentiero s’apriva, come un’aspra gola, nella neve fra le fitte fronde di pino, i loro aghi cristallizzati da rorido residuo di pioggia, lacrime d’argento. E nel cielo veniva come a tornare un serraglio di tenebra, demoni essenti in nembi incupiti.

Sguinzagliate le feroci fiere all’imbrunire. A far tornar Vestali in umida carcere. Diceva un detto.

«Alla carcere? Dovremmo forse tornare?» A pronunciar verbo raggrumato nell’aria era quella fanciulla persa nella mezza via del sentiero, nascosta nella volta di rami ossuti.

Nella notte che cala ha i capelli d’un rosso lieto, e sono quasi ondulati da una brezza gentile. La vestale ha occhi di ghiaccio come artici figli.

«Scende la notte, sbrighiamoci o chissà quali bestie…»

«Credi ancora a quel vecchio detto?!»

Era l’ululare di un lupo arroccato sull’altura canuta, lontana dal dove, a rombare fra le mantelle di cuoio martoriato.

Il volto della vestale infuocata sfiorì dal quel suo bianco malato in una scia di rosso imbarazzo, le guancie contornare da efelidi, ritratte alle palpebre degli occhi.

«Vedi! Andiamo!» La compagna al limitare d’inizio del bosco infedele era avvolta nella mantella irsuta di visone. La bocca coperta scricchiolava nei denti. I suoi occhi eran verdi, come le rane del pozzo.

«Cosa vuoi che sia un vecchio lupo?» Recitò in un carisma spezzato. «Per un’ultima volta, dai.» Aggiunse mesta, quasi il broncio dipinto sulle labbra pallide come petali di giglio o rose di ghiaccio.

«Quante frustate? Tanto me le prendo io.»

La vestale dai capelli cremisi e gli occhi di ghiaccio avanzò silente nel terreno scabro, osservando ciuffi di vita affiorare fra la mortifera neve. Si strinse ancor più nella mantella, assaporandone l’accogliente calore che donava la federa di lana all’interno, cingendo le mani attorno ai fianchi come a rinnovare una promessa celata. Sospirò, serbando il ricordo di vita condensata nell’aria, quell’alone d’opaca foschia perso nell’assorbirsi in altri mondi. Le mani, le portò al viso, scivolando le dita di plastica fra i capelli, le unghia spezzate di vestale ribelle, parevano colonnine ghiacciate passate sulle gote incipriate da lentiggini e un rossore aggrumato tutt’intorno. Era una donnina innocente nella sua machiavellica finzione.

Un fruscio. O è solo illusione?

Un attimo. Come se un segno del tempo fluttuasse nel cielo, come nuvola fusa in cenere che lascia trasparire un disco schiarito nella sua pallida porcellana.

La luna.

È l’amante violentata nell’inabissale passione.

È… quasi a un passo. Con un dito puoi toccarla.

Tangibile e impalpabile, ti guarda da lontano, relegata nella sua gabbia impenetrabile.

Un soffio, fatue fiammelle di candela, e le stelle si spengono.

Ma rimangono là, a far da corteo ad una luna che per l’occasione veste i panni di una cantastorie vissuta, con voce roca artiglia l’anima di una docile fanciulla persa nella sua imprudenza. È come un lupo, arroccato sulla sua altura, ulula nella dimenticanza del suo regno notturno.

Tutto taceva, o tutto anelava vita perduta. Affanno è il solo perdono di un’accennarsi della redenzione divina.

Torna a casa, bambina.

E la vestale si volse, ormai preda di quell’antica sonata intessuta fra rami scheletrici, e melodiose lune fra le fiammelle stellate nella volta d’onice che cangia in quel blu; presidio d’anime funeste. Ma non c’è donna ad aspettare l’occhio che corre, che vagheggia alla soglia d’inizio bosco. Ed il Convento ormai è un ricordo dipanato negli esangui corpi d’alcune nubi superstite della tenebra.

“Forse dovrei tornare… c’è freddo e ormai è notte inoltrata”.

C’era freddo, quel Vespro. Uno di quelli che s’insidia in ogni dove, raggela quel fragile corpo solo nel rimpianto. Poche lacrime, come sorsi di uno sciroppo antico, vergognate nella loro discrezione. Sono calde e salate, accolte dalle labbra appena schiuse; pillole di conforto? Se solo, per qualche segno dal cielo, si fossero cristallizzate in perle, anche un qualsivoglia dio ne sarebbe rimasto incantato. Ma quali squarci di madreperla potrebbero confortare l’animo solo nel silenzio d’inquieto vivere?

Di teschi sanguina il dolce ricordo.

Ancora, lo spirare che non cessa, di quel demone sopraggiunto dall’ovest, ch’ora come mai scivola d’antartiche banchise sulle candide capocchie sul mare sfaccettato. Son richiami a luoghi lontani, un giorno o mai materializzati nel sospiro di un albeggiare quieto sul vascello verso mete a noi ignote, poiché non è forse vero che il desiderio è ignoto e criptico al nostro sapere?

Ma non c’è tempo per discorrere di ciò che s’è lasciati dietro, e nemmen’avanti. La giovine strega sussurra uno scongiuro, affinché il serraglio di menzogne non la soffochi nel gelo. Un altro passo, e l’impronta lascia il suo marchio sulla neve, sono orme d’innocente purezza o vermiglie nell’errare il peccato?

D’improvviso è come se il corpo si fosse ceduto ad una corazza di carta velina, così inconsistente da lacerarsi al prossimo movimento indiscreto. È come una gabbia dai pilastri stridenti, ringhi di un lupo, qualche singulto scuote gli arti assiderati. Una pioggerella s’accennava nell’aria, è compagna di una dolce frescura che sa certo travalicare luoghi lontani, per sfuggire al pericolo di questi giorni. Syria, la vestale, per attimi fugaci vide il pensiero scorrere nella testa. Avrebbe voluto essere una dolce frescura, viaggiando incostante. Una brezza di nostalgia che s’infiltra nell’orecchio per reclamare saudade di terre lontane. E quasi rise, della sua sciocchezza manifestata nell’apparente eclissarsi delle sue forze.

Mi chiami buio? Infame custode della tua peccaminosa imprudenza?

I lupi del bosco faranno tesoro del tuo corpo, l’accalderanno nel loro manto fervente, come se fossi loro figlia: adepta di un dio minore e nient’altro!

A volte, il mondo cambia. Come il disegno di un bambino, paesaggi scorrono e si cancellano sotto la sua penna d’infante. A volte, tutto ciò, è di una bellezza infinita.

 

* * *

 

Aprì gli occhi, schiudendoli come ali di farfalle nel pulsare della vita.

Famigliare, come doveva essere: fra le lenzuola sfatte e le pareti di un intonaco ingiallito, nei silenzi ovattati di quel mondo di cristalli, che riluceva ad ogni sguardo. Nessun bosco e nessun lupo ad avvolgerla nella rassicurazione del sogno. Mosse i piedi infreddoliti, le gambe nude dalle ginocchia in poi, coperta da una tonaca di lino bianco, col bavero merlettato di pizzo ad attorniare il collo. Quelle gambe apparivano come svuotate dal sangue, come morte ed esili, pezzi di vetro. Le sfiorò ritraendo le mani subito dopo, avvertendo un sentore maligno, quasi un’energia spenta. Appassita.

Scalza allungò sull’impiantito i suoi passi, silenziosi, scivolando sulle algide mattonelle in una scacchiera infinita, marmorea.

Toc, toc.

Le imposte che sbattevano fra loro, sfregando le ante di legno incrostate di brina, fra gli specchi condensatisi sfocava gracile, un’aurora mortale.

Accorse al davanzale d’ardesia ingrigita, soffermando lo sguardo sul cielo dove braccia protratte splendevano d’un giallo schiarito, come orme su un deserto di neve, tortuose nelle sue forme serpentine a traversare il cielo, sventagliate ad alberarsi di vene. Una gabbia di luce, pietra immortalata in archi gotici. Così composta, quest’aurora,che nella sua volta impietrita non avrebbe ceduto al cielo, ma al contempo pareva spezzarsi, frantumaglia della sua insana stabilità.

 

Bianca d’Aurora

Sfiorisce mortale di

Pallido ghiaccio.

 

E in quel momento soffocò un singulto affiorato alla gola, e per un momento le vide. Le Anime Bastarde, venute a reclamare la penitente, ad ucciderla per aver violato le brame del bosco. Per essersi ribellata all’assurdità, alla moneta che decide col suo voltarsi la sorte funesta. Così ridicola che le Anime Bastarde l’avrebbero uccisa nelle insidie del sogno. Sì, le Anime Bastarde, i Figli di Gelo; a danzare nei vestitini blu, inseguiti da un’orda di cani che latravan bendati.

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NdA.

Ho scalato gli anni, poiché volevo giocare tutto in età gotica… ho tolto i giorni del mese, perché è impossibile trovare calendari risalenti al 1150. Grazie alla zia per aver prestatomi attenzione, come sempre. A giovedì col secondo capitolo!

Puntuali, eh ;)

 

 

 

1 commento:

  1. Non capisco solo una cosa. Come mai hai messo in nero la frase piedi/gambe/lino che ti avevo corretto io?
    P.S.: bella la scrittura con cui hai messo "Borealis", qual è?

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