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martedì 7 giugno 2011

Good Bye Lenin!

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Inizia così, ha un bell’attacco. Di quelli favoleggianti come le corde rotte delle nostre piccole arpe ai tuoi capelli.
E poi finisce – dentro un buco. Una fogna, una frase che lascia le tue piccole anime a metà, nel cardine d’incastro all’apice dei tuoi sogni stesi ad asciugare. Una cagata.
Questo posto ha solo noi.
Fa solitudine, la tua grafite tra i miei seni, e i sospiri che formano i draghi dei tuoi pensieri. Ho comprato foglie, le foglie per dirci che se le strappiamo non stiamo più insieme. Nascoste tra le pagine di un romanzo, di quelli che senti lo stormire delle frasi. Niente più parole, promettimelo.
– Prometto.
Che l’inchiostro ci trucidi.
I tuoi sistemi complicati non servivano mai a nulla. Solo che volare, quando le tue dita scivolano sulle mie stelle disperse su un ventre gravido di poesie dell’hard discount, lasciava tanti buchi tra i suoi gesti d’inchiostro.
L’oblò, l’oblò, non permettere ai bambini di entrare in contatto con l’oblò… com’era? Era così, erano le tue lune dirottate per i bazar, le lanterne di carta strappate per farti luce dentro la carne, per vedere se t’incendio c’è il tuo amore che m’indora i sogni.
Io non ci entro dentro l’oblò.
Mi fa schifo.
Le tue braccia, così lunghe, sembrano ritagliate dal cartoncino nero, le aurore immense che proiettavi come i segreti scritti sulla schiena… Sorry, I’m sorry. 
E le protendi, dai nostri buchi.
Per dirmi.
Che.
Se.
Le.
Sfioro.
Mancano.
Di.
Sospiri.
E.
Poi.
Il piccolo inverno dei tuoi battiti era l’inferno dei miei limiti, tra le nostre soglie, ci siamo accorti che le parole erano buchi troppo grandi per poter essere trattenuti. E che noi eravamo  parole. Due parole, verbi risultativi. I tuoi abbracci morfosillabici.

Com’era? Segno di uguale più quello di acqua. Il tuo nome.
Chiave d’oscurità.

domenica 8 maggio 2011

Lettere dall’albergo Astoria

Quando per scrivere qualcosa prima ti devi immedesimare, è come un attore, un ruolo da interpretare, pian a piano, per davvero, perché non puoi resistere ai richiami della gente, ai caldi sussurri di una maschera.

* * *

 

Madame? Ho paura.

Ho paura, manco fossi la nota saltata di un pianista, scordata per caso da dita troppo sottili per trattenere le dimenticanze ai diesis dispersi.

Ho paura, Madame. St Petersburg è una pallottola nella neve, è il mio sogno congelato. E non consumato, no, non lo è. E tu, Madame, sei un po’ di colore buttato giù, ai gli occhi rotti dai baci del vino, dal silenzio divino.

Hier, Madame, avevi un bacio vestito nella malinconia delle mie matite sporche, rotte, infrante5145937428_73a1fda1af_b sotto i tuoi profili sempre più spigolosi, sulle scalate di colore – di piacere. Dei miei tratti – come le tue unghia sicure tra i miei seni, e le vesti sbrogliate da ogni foglia d’autunno ch’andato scricchiola tra una piega e l’altra, quasi – Madame – fosse un visto, un visto agognato. Cadute a terra, dai rami di sogni come baionette. O da fucili.

Pa, pa, pa, pa, pa, pa, pa, pa, pa.

Pa!

Mia Russia.

Et voilà… ho un quadro! Un quadro, in camera, una tela rovinata dalla smorfia delle mie mani, dai bronci del mio pennello. E le setole – le setole, le setole che roteano come le ballerine del cancan, i tuoi papaveri sfioriti si sono amati in un cassetto a Parigi. Nous allons à Paris, un jour, Mon Amour. Ensamble.

In rovina, il rosso t’ha scoperto d’invidia, in una posa così osé, hahahaha son le risa dei tuoi vini, dei tuoi baci, degli abbracci gelati di secondi esplosi, e le dita, le dita che traversano come trame, come ossa in una tempesta. Siam calici, calici roti nella meraviglia dei nostri vuoti.

Au revoir, Madame.

Che le stelle ci strazino le cosce, ci entrino dentro le cosce, e vengano poi vomitate come le mie belle figlie, come donne fiamminghe, come fuoco tra le stringhe.

Oggi, domani, per sempre.

Au revoir, Madame.

E ascolteremo i tramonti sui confini di nuovi spari, confini che restringerò, tagliati nelle tue labbra. E mani infinite che sbocciano ricordi insani. Come i figli del bosco, Madame.

Come i figli del bosco.

Come gli oceani seccati in gola, macchie di rose ai nostri peccati.

Che siam le frasi lasciate a metà, quella mai iniziate, mai finite, quelle infinite.

Adieu.

 

                                                                                                                                               Tamara Ł.

sabato 5 marzo 2011

Hirondelle

Ritorno ^^.

Dopo tanto tempo, un nuovo racconto. Primo classificato a un contest e vincitore premio stile.

Buona lettura.

Vorrei ascoltarti ancora. Dimmelo, di nuovo, col cuore in gola. Su altri piani, ingialliti come macchioline d’immenso nell’ambra dei tuoi occhi, li scandisco a uno a uno tra le mie dita. Ogni singola lettera, tracce, sangue di sogni riversati sulle carte del nostro amore… ti prego, un’altra volta. L’ultima.

Eternamente tua.

È di una dolcezza infinita, come una sonata… una sviolinata in Antartide, col ghiaccio che ti frange il pensiero, che si specchia fra la spuma di mare. Un soffio, l’infinitesimale desiderio schiuso e raccolto. Mano di ragazza che lava i peccati. Sei, eternamente mia?

Stap! Ti ripongo come ultimo avamposto dei ricordi, tra la polvere. Esalo un sospiro, mi vedi? Io no. Sono giorni che sei partita e di te rimembro assieme solo calici di vinaccia che ora sono una bottiglia. Composta, l’ultima droga.

Richiudo la credenza, le mie dita scivolano tra le imposte, assaporano il vetro strappandone un velo di polvere. Mi giro, la stanza è trafitta da pulviscoli che perforano i tavoli e si screziano nei fasci di luce che entrano dalle vetrate. E poi lo sento! Lo sento il rombare del mare, focoso, irato con me stesso e il mio cuore. Distante anni luce, però ha pure le sirene. Magari in fondo all’oblio, ma le ha.

Mi avvicino a un tavolo. Abbozzo un sorriso di quelli che scolano malinconia come alcol puro ai margini delle labbra. Che beffarda la solitudine, una fiamma d’evanescenza che brucia tutto intorno a me. Un vaso di fiori nel mezzo delle rughe di legno distese. Camelie rosse. I petali si rincorrono battuti da uno sprazzo di vento, suadente. Mi avvicino, le sfioro col naso, il loro fulcro sboccia per cogliere ciò che ne è rimasto della miseria… un pugno di sabbia. Non hanno odore. Non l’hanno mai avuto. Ritorneresti, vero? Lo faresti solo se ti dicessi che queste camelie fossero l’essenza dei nostri baci. E che magari con un altro bacio profumerebbero del tuo respiro. Acquasanta e conchiglie macinate.

* * *

Corre. Ma dietro lei ancora il mondo ne serba il ricordo, ne imprime le vestigia. Passettini sull’oceano di sabbia. E lei rifugge dall’accogliente volta indorata, che la imprigiona dabbasso come cielo stellato da conchiglie. Scalza, assaggia anche l’arroventare della sua fuga. Una fuga che sa’ di lamponi infilati tra i denti dall’amante bastardo, seduti sulle balaustre dell’inferno a osservare l’oceano. Per sentirsi se stessi.

Una striscia di acqua le passa accanto, si disegna tracciando blu schiumato all’infinito. I piedi si bagnano, una brezza fresca che la incatena ancora alla terra. Una terra scossa dal fremito dell’anima della ragazza che, oh, casca lasciando il calco del suo passaggio. In balia delle onde, della memoria, sente la redenzione dall’oceano. E le dita che vorticano, verso il cielo, tra le rondini che s’incrociano e cascano al suolo in macchie d’inchiostro.

Proiettano una scritta. L’ultima, perché lei lo vuole. Lei lo sa.

Eternamente tua.

E poi fugge, di nuovo. Lasciando dietro i suoi passi spuma di mare e tracce d’inchiostro cristallizzate. Piume malate.

giovedì 17 febbraio 2011

Riot

La notte dei deliri è ciò che viene chiamato alcol d’ispirazione. Pochi giorni fa’. Io e Francy, malinconia, tristezza e nuovi animi corrotti. Una chiacchierata in chat ha scaturito dei deliri. Ho deciso di rimodellarli, allungarli, inserire altri paragrafi per renderli più complessi.

Le parti in bianco sono le sue, quelle in blu le mie. Ma io ho scritto alcune sue parti nella nuova versione. Ad ogni modo, è una mistura d’immenso. Una metafora di speranza.

E così comincia Riot, i deliri di un punk poetico e di una malinconica, che viaggiano… viaggiano su altri piani affastellati da adrenalina. Dalla voglia. Che è di cadere. Non di volare.

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Voglio completare l'adolescenza assieme a te, buttandoci da un ponticello di Venezia, mano nella mano, e gridando qualcosa di rock con la voce che si è corrosa l'animo appresso. E ora raspa come una caverna.

I canali veneziani sono inquinati.

Ma questo fa rock.

Vorresti rimanere impigliato fra le fondamenta d'alghe di una piccola Atlantide senza speranza?

Sì, oppure no. Però… qualcosa di simile.

Io andrei a Carnevale, vestita di nero, e romperei dieci maschere in piazza San Marco. Poi fuggirei e fra il tintinnare dei vetri soffiati di Murano salirei sulle ali di una gondola, in punta di piedi sulla parte più alta per sfiorare con il naso il fondo umido di pietre grigie di ogni singolo ponte. Una volta raggiunto il mare, solo allora mi butterei per sapere di sprofondare in un’immensità in cui non si può essere soli.

Ci sarò io con la maglietta blu scuro, maniche corte nel più gelido inverno, una faccina triste gialla stampata su e jeans troppo stinti, quasi bianchi, laceri e lerci come un fondale di fogna. Io che faccio le corna da dietro la schiena al gondoliere. E…! È forse, il forse, l’emblema, la sbronza di perdere per un attimo l'equilibrio, ma poi tutto si rovescia, è apposto… È per provare l'ebbrezza di cadere veramente, col cuore, con la mente, per sfregiare l'essenza incrostata di silenzio pesante. Come se ciò che cadesse fossi tu soltanto.  E per sempre. Come calcinacci da un muro sradicato dall'anima. Fine.

«Mi dici fine?»

«Forse.»

«Cosa forse?»

«Alle stelle servirebbero dei preservativi per danzare più sicuri, come nastri per reggersi ancora in cielo e non impattare con tavolati dei sogni.»

«Ma tanto c’è… la carta di imballaggio che li protegge.»

Vi passerei la mano sopra, le palline, sfiorandole con la tristezza, sfiorandole con l’ago delle spille da balia rimaste incagliate al vortice di amori diversi, tracciati sulle mani dagli occhi orbi di una zingara. E se scoppiamo è perché abbiamo amato troppo. Amiamo lei, che persa, spremuta su una grattugia, è l’amicizia. Idolo di sangue. Scorze di mele, acido di limoni e sentiero di arancia marcia.

***

Io andrei a piedi sin da lei, strappando lavande al mio passaggio, infuocando il grano con la benzina

E la schiena rotta dalla pioggia, e la bocca impastata di capelli d’altre, altri

E il silenzio che preme sulla lingua come cenere.

* * *

Art_is_Dead__by_PropaneN_ButtascotchHo preso un tram e guardavo le stelle fuori per sputar loro in faccia neve e sangue, e le converse coi buchi affondavano la loro marcia sul cuore.

Dille che… il suo cuore è un palloncino adagiato su una lettiera d’aghi, e miele sopra ch’attira le ali, e lavande sterminate. E che per lei una cinta di silenzi e ghiaccio le crepa il volto in rughe di specchio. Passato e presente, valanghe di miseria e schiaffi; si può essere soli, assieme, insieme, un campo di concentramento per scabre crisalidi bastarde.

Dille che ho messo un orso dentro una voliera e falle vedere la tua mano intrisa di sangue, mentre percorri le mie guance con le ossa della barba.

Sei un maledetto, se le dico questo, vorrà sapere il resto, e se le dico che in vero è per te pensa che noi ci amiamo e…

Fanculo, dille…

…e questo è sbagliato. Dille, dille, dille cosa?

‘Fanculo.

Mentirei due volte.

Mi sento bene, così pieno di droga, così pieno di cinismo, di vita.

La vita... Io sento che la mia si sta diluendo come un colorante nell'acqua, e se seguo le tue parole si riempirà di veleno. Sei il mio veleno più dolce.

E tu fiele d’amaro sogno. Vomitata sul campo di un universo ingoiato a forza. E spari di dolore, polvere da sparo a crivellare fogli di storie novelle imbiancate.

 

***

Sono le ispirazioni, sono che voglio staccarmi dal mio essere, non voglio poesia, voglio più questo, più follia, più qualcosa che gratta e non smorta. Voglio me stesso, lo sfacciato me stesso.

Dì che hai ricevuto un delirio e hai dato un mazzo di lavande secche, perché io le ho detto di aver ricevuto quelle. Se proprio vuoi uccidermi, fallo con classe.

Posso davvero? Mi permetti l'onore, come mi concedi la mano e invece ti sfilo l'anello…

Sei crudele, non so cosa vado cercando permettendoti di fare certe cose. Anzi, forse lo so, e forse non mi sta più bene. Hai il mio cuore nelle tue mani, fanne quel che vuoi.

No. Non voglio dirle nulla, se non vuoi. Il problema è che sei troppo perversa per capire…

Per non volerlo.

…cosa ti farebbe piacere, e per non volerlo.

Dillo, in maniera bella, con classe. Dillo, a tratti.

Dillo come se ti cadessero le parole dalla bocca, dalle dita, tasti consumati caduti nel tè bianco.

***

 Non credo che capirà tutto. Verrà a chiedermi spiegazioni, e io… io parlerò, se è questo che vuoi.

Per forza?

La forza è una stronza partorita da una bolla soffiata dal naso di un orco.

Mi sarei bruciato le punta delle dita per possederla.

Le costole a sassate e sfiorare stelle con le antenne per…

No. Parlerò perché è meglio non mentire, né avere segreti.

E se non l'invio, parlerai?

Se non l'invii, resterà tutto così, sospeso, e io non troverò il coraggio di abbattere questo muro.

E tu cosa vuoi? Una spinta…

Voglio che mi getti giù dal burrone. Dimmi quando posso cominciare a volare.

Ora. Ti aspetto giù, per prenderti in braccio.

Prima bugia svelata. Devo cadere ancora?

E allora cadiamo giù. Destinazione bollicine d’alcol, unico appiglio che vive sospeso su isolotti come capocchie di spilli infilati sul cranio di una rossa riversa in un lettino, il capo staccato dal collo.

Ho scarabocchiato un bacio di luna sulla tua caviglia, mentre dormivi accanto a me in una cabina telefonica, che strillava asilo per gli immigrati del cielo.

***

Prendimi! Ora, o muoio.

Presa. Oddio, le mani quasi cedono e i tasti si consumano appresso. Quindi?

Ho bisogno di te. Cos'ho fatto?

Nulla. Solo onestà, solo sfrontatezza. Solo andare al confine, con un fascista che ti punta la canna dentro la gola e scoprire che è bello. Tutto. L’avventura. Ridere di Morte e le sue comari, che come vecchiette indecenti, fanno schedine sulla gente.

E allora… perché? So perché, ma ora mi sento ancora più vuota, ho ingoiato coriandoli di fuoco.

Vuota è quando ti sei tolta tutto dentro, perché eri troppo pesante. E… oh dio, ho mozzicato le stecche del tuo stomaco.

Voglio aspirare la diossina che è salita, una ciminiera d’odio, dai bruciori infernali.

E allora, se mi sono tolta tutto, c’è ancora qualcosa che resta. Voglio affondare, perché solo così, secondo il giudizio di Dio, nella mia ordalia risulterò innocente.

Davvero?

Sì.

Ma è una cosa tanto brutta, quanto rubare una stella al cielo e scoprire che è reato, scritto a penna sull’ultima pagina di un libro di codice penale?

No, è bellissima, se resta solo mia.

Cosa?

Il peso che ho ancora dentro, quello che tace e che mi fa andare giù, una sirena dalla coda di piombo.

E allora fa sì che rimanga bellissima, e stavolta non sarai assolta… Ma solo per oggi, perché alla fine è solo un foglio che sta per essere bruciato. In fondo… in fondo, il colpevole sceglie la sua pena.

Ma non la sua colpa.

Vuoi essere assolta o giudicata? Che devi fare, lo sai che il dito più lungo di un giudice è sempre l’indice? E quello di un nazipunk è il medio…

Niente, devo restare così, sul fondale. Voglio che sia così, ancora per un po’.

Ed è bellissimo, perché adesso il linguaggio è un mucchio di bolle.

*  * *

Ho visto un treno correre. Alle ruote sono impigliate le ortiche. Ai finestrini rotti, le mani staccate dai corpi di zombie svuotati dal sangue e residui di plasma dentro le vene, tra le mani, fra una cucitura che squarcia le braccia, dentro agli occhi.

Un mucchio di deliri concatenati a un bisogno troppo forte di vodka alla menta e di Russia. Di casinò che in verità è un po' casino.

E che sommariamente, uno scritto? Un delirio, un ciao e un abbraccio troppo forte da stampare addosso profumi che non staccheranno mai la presa dai colli.

E che sia.

Il più bel regalo, quello del per sempre.

Promettimi che lo farai. Non per scherzo. Non stavolta. Non è una presa in giro.

Non è amore.

È affetto. È dirsi, scrivimi per sempre prima che scappi sotto il viale.

Ho ricevuto quattro fogli di diario e un anima d'inchiostro allegata.

 

«Hanno ucciso il gatto della bambina dei viali. Infilzato sull’antenna del paradiso.»

 

Ma lei non è mai scappata.

 

mercoledì 9 febbraio 2011

I Can Wait Forever, Parte seconda, due

LOVE_II_by_groby

 

30 Maggio 1823, Valensole.

Bugie. Solo bugie. Bugie i conduttori tra i campi del sogno, coloro che gli tengono la mano, insidiosi, scivolano, intatti. Crisalidi di gelo, amanti di vetro che prendono forma, mutano nella compostezza perfetta di una scultura di marmo, estasiata finemente, sbozzata da aneliti soffocati.

Evangeline sente una morsa sradicarle lo stomaco. Porta le mani in grembo, il ventre scosso da battiti perpetui, ferrati, ora mischiati al suo tossire. Il cappello in tralice sul capo, i riccioli rappresi di acqua sul volto. Il ricadere di pioggia nel fosso del nulla.

Il piede lascia il predellino, il tacco che scivola sulla superficie legnosa, un ticchettare quando impatta col suolo. Un suolo bagnato, in cui sprofonda, fangoso. Una liberazione che parte dal cuore, reciso a metà, sfiora i confini di lui. Sì, lui. Byron, col petto raccolto in un nodo d’orgoglio impossibile da trattenere, che a scioglierlo nemmeno le sarte del re, solo la dedizione delle dita di lei avrebbero potuto armonizzare nel tocco più alto di una scala musicale, l’infinito della felicità.

Lei gli stringe un mano e lo trascina verso l’esterno della carrozza. La notte, intanto, li avviluppa come sogni nel corteo di strascichi e candidi veli, rimangono impigliati alle fibre di trame, tra un filo e l’altro, stretti nel proprio destino, forse per rimanere incompiuti.

I loro respiri affannosi s’imbrogliano l’uno all’altra, legandosi come due bambini che corrono all’impazzata, giù lungo il vialetto per arrivare al negozio di dolciumi, il venditore che li aspetta, più famelico di loro.

«Byron, lo sento, il filo rosso, mi sta tirando.» Evangeline bisbiglia nel vento, il suo sguardo non è mai giunto così lontano.

«L’inganno, scivoliamo, ce lo avvolgiamo attorno. Con calma, che sarà la nostra morte.» Il freddo che li riveste come guanti di fine pizzo, li trafora, ogni insidia trasuda fra uno spiraglio e l’altro. Ed è melodia, tutto questo, tutto ciò che muta e si disperde nell’aria, accorda ogni loro mossa. C’è già un angelo che raccoglie i filamenti della loro composizione. Unica. La migliore.

«Guardale, le lavande. Sono sbocciate, e non è così bello, un pianto dal cielo che gorgoglia dal cuore, la fonte di un infinito impossibile da raggiungere. E se vuoi lo possiamo rincorrere e riderci, ridere del nostro essere sfacciati. Sei l’alito, la voce più dolce, che suona accanto a me.» Byron pare un soffio d’armonica, una croma con l’uncino che stilla la felicità col miele più dolce, in fondo la polla di luce che accoglie ogni desiderio taciuto, ogni reietto perduto.

«Ti amo, mio Byron.» Con la sua voce che sfoca i tratti della realtà, s’affina la chiusa di ogni sussurro.

Le lavande. Una due, tre, infinite spighe accolte nel grembo di una madre impaziente. Le loro gambe che ardono, un andirivieni di cuori, la requiem dei loro passi è il segreto di ogni animo errante. Gli steli, così tanti, un’infiorata di ametiste in frantumi, la scalata di note, il fallimento di un’orchestra indecente. Le ballerine, nei loro tutù, sfioriscono scomposte sul palco della loro ferma esistenza.

E allora corrono.

Tac-tac, tic-tac, tic-tic, tac-tac. La pioggia che ride di loro.

Ogni singolo gambo, ogni singolo fiore che forse ora sboccia nel momento in cui esso sfiora le loro vesti, e loro continuato, combattono ogni onda violetta che gli s’infrange contro, nella marea di mazzi soffici, fanno attrito contro le gambe. È un frusciare confuso, frammisto alle risate concitate e sguaiate disperse nell’aria, i loro passi attutiti nel manto. Scappano, fuggono. Evangeline sente la mano di lui chiudersi nelle dita, stringere forte per stornarla a sé, e lei s’avvolge come una spirale tra le sue braccia. Ora sente il suo respiro caldo sul collo, la pioggia solo la spettatrice più casta che non dirà mai niente a nessuno, che oziosa ricade sui loro occhi, le labbra allargate e appassite. Ora lui abbassa lentamente il capo, il contatto della bocca col suo collo le strappa un brivido fugace che si diparte dalla schiena. Si aspetta il bacio, ma lui indugia, inala la fragranza che fa la pelle della sua amata: crisantemi d’acquasanta cosparsi e fiele ricavata da rose malate.

Le mani di Byron di legano come un lustrino suadente attorno alla vita. Evangeline s’inebria, si sente un arpa pizzicata da Dio. Poi uno scossone e il cuore fa un tuffo all’inverso. Cadono, tra gli sbuffi ridenti e giocosi. Il corpo di lei sopra il petto di Byron, muove le gambe all’aria, scalcia, mentre la gonna s’apre a campana.

Le mani frattanto si cercano e si trovano, il calore che contrasta la pioggia li conforta.

E ora guardano, perché il cielo non ha mai avuto così tante stelle. Tante che le loro dita inseguono la novizia che ora come una candela, s’accende nel firmamento. E pian piano la loro gioia si confonde, con il cielo, un quadro denso, è petrolio quello che li trascina nel sogno. E là immaginano che il cielo sia solo un tetto al contrario, e di scrivervi i proprio sogni, sbocciati in stelle, da scagliare a proprio piacimento nell’immenso.

E forse, per la prima volta, s’amano. Con un bacio e una carezza. Ma è così puro il momento che nemmeno il ricordo riuscirà a intaccarne la perfetta intimità. Un altro, misero fotogramma con una crepa nel centro, carta cadente di momenti felici.

Poi qualcosa sfugge, una nota incrinata, di quelle stonate, l’estro dell’orchestra caduta che risuona in solitudine la propria disperazione.

«Touchè» Gli amanti che sfiorano il cielo.

Ti sfioro, mio amore, tolgo anche l’ultimo ciglio al pesco in cui mi tieni nascosto.

Il loro amore è come un nastro d’alba infilato tra l’impercettibile silenzio di un battito e l’altro.

lunedì 24 gennaio 2011

I Can Wait Forever, Interludio VI

 

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07/03/1823 – Interludio

Londra, Giardino di Casa Hinchinghooke.

 

«Byron! Rose, rose rosse! Rose fiorite, rosse come il filo che m’hai legato al polso.»

Evangeline alza il volto, pallido, quasi mascherato di porcellana, la crocchia di filamenti screziati di cannella, cioccolato al latte, fuso nell’assecondare il denso mormorare dell’animo.

Byron accorre, nel vialetto incorniciato da verdi cespugli, peonie rosate sono sporte come pettegole indiscrete, premature, ingenue. I suoi passi sono pacati, cheti, imprimono vestigia sulla terra smossa, come petali di rose corrose.

Nel cielo, i banchi di nuvole londinesi sono canarini da trattenere tra le stecche di ferro di una voliera, si ha paura che possano increspare le ali verso lacrime che ingrigirebbero il soleggiato meriggio ch’ora si godono.

Le betulle si librano accanto, affrancate da braccia più alte, confuse, ramate e schiarite di un verde che s’accende e s’arriccia.

Lei è in fondo, china tra petali come pizzi arrossati dal sangue, la veste di raso magenta la costringe in una statua dal profilo incerto, quasi si contenga a stento nella gabbia posta. Ora s’alza, lieve, le ciocche che le ricoprono il volto, le scosta con un gesto delle dita. Mentre Byron le gira dietro, lento, il cuore che gli batte in petto, un palpitare simile alle onde frante, le cinge la vita. Lei s’infiamma in volto, le guance cosparse di quella tinta apparsa in sprazzi a intrecciare un piacere scabro. Sente il corpo dell’amato, quel petto premerle contro la schiena, freme. Fremono tutt’e due. Vibrano al cospetto della loro felicità. Questa è l’ouverture di una sinfonia dal timbro talmente basso da strisciare in terra.

Byron abbassa il capo posando il volto nell’incavo tra il collo e la spalla sinistra della sua dama. Le prime note che s’accendono del profumo di fiori gelati.

«Rosse come il demonio. Come i suoi capelli che fuggirono in una scia devastante. Attenta a strattonarlo; mi portò via, per certi versi, staccando a forza l’essenza di un amore straziato.»

* * *

Il distacco dei loro respiri, le mani sciolte dal casto nodo che dapprima s’era creato, il sentiero di riccioli d’erba che affiorano dal terreno, li accompagna distendendo la terra in piccole dune. I loro piedi che tratteggiano il sentiero verso casa.

«Lei viveva in me e io in lei. Un essere decomposto, disfatto, l’embrione che si serviva di me, la scintilla dell’incendio. D’un tratto la vidi, la vampa che allungava le sue lingue, colate mai fredde, lungo l’apoteosi del nostro amore. Oh, Eva, l’amore è servitù, nevvero?»

Lei deglutisce, socchiude gli occhi, le labbra dischiuse, appagata e affranta dalle parole di Byron.

«Erano quindici, gli anni che aveva, seguivo la sua ombra per casa. Timida e fragile, furba, artefatta. Mi mise un dito sulle labbra, il monito di un silenzio oscuro. Aveva progettato tutto. Mi aveva messo fili immaginari in una schiena e li aveva trascinati. Mi sono sempre chiesto cosa sia ciò che l’abbia spinta a fare tutto… questo. Perché i cocci della sua infanzia distrutta invasero anche la mia.»

«L’imbroglio, giusto. È come dipingere un quadro difficile, la punta che si spezza, il pennello che sbava. È arte l’inganno di mascherare il tutto.» Evangeline alza le ciglia schiarite, di fulgido grano, e pare quasi voler sfiorare il cielo, con gli occhi, le dita, che rotea in su per cogliere quel raggio di sole che s’insinua come un silenzio sepolto e riemerso.

«Katherine aveva bisogno di me, me lo aveva scritto. Impossibile negare che m’aveva avvisato. Le sottili lettere sulle mura della soffitta, tracciate col dito sporco d’inchiostro, tondeggiavano. Non stavano mai ferme. Quel reclamare a me, un grido strozzato che parte dall’oltretomba e non giunge in vita. Ho bisogno di te, sei tutto, sei l’ordito in cui inseguo i miei sogni, mi diceva. Era il cartello di polvere, una cancellata impercettibile che sotto la mia presa, prima o poi, si sarebbe spezzata.»

«Ma dimmi, cosa è successo veramente?» Lui le rivolge uno sguardo intenso, gli occhi di lei colmi delle increspature del ghiaccio, di un amore di vetro incrinato. Un acchiappasogni dalle tinte riprese a guardare specchi di mare riversi, un fondale che proietta i propri sogni in lustrini dorati che s’interpongono all’acquamarina infinita.

«Disse che mio padre… tradiva mia madre. L’aveva visto con un’altra donna, l’intreccio d’altre vesti, il profumo d’altre carni. Era qualcosa di doloroso, mi fidavo di Katherine. Era come camminare su un filo sospeso sopra l’oblio del terrore, avrei voluto chiudere gli occhi, ma l’attrazione verso ciò che reclamava il mio essere dabbasso, era troppo forte. Sai, il filo si fa sempre più sdrucito mano a mano, lungo il cammino, fino a quando non c’è più nulla. È una sciocchezza superare il vuoto, camminarvi sopra, viverci, alla fine la caduta è inevitabile.» Ride. E si sente cadere, le ciocche dorate che gli ricoprono la fronte tersa da goccioline di sudore, che nascono dall’interno, paiono avvizzire, spegnere le loro tinte accese.

«A quei tempi, mio padre era il riflesso distorto di mia madre. Era lui che aveva assecondato l’accoglienza di Katherine nella nostra famiglia. Mi sentivo trafitto, trafitto in controluce. Lei, lui; lei che mi diceva: chi ha i capelli rossi porta solo male in famiglia, lui che osservava le note scorrere dalle labbra aperte di Katherine, sciogliere tutti i nodi intricati nel cuore e farsi beffe di noi.»

«Cantava, Katy, allora, era lei la tua vera musa.» Lei cerca le sue dita lunghe, le trova, le stringe, assapora il gelo raccolto in quella pelle, si propaga in una malinconia immensa.

«Lo fu per tanto tempo. Lo fu di tutti, tuttavia mia madre non restava ammaliata e non ne ho mai capito il perché. Mio padre pagava le lezioni di canto, potevamo permettercele, sì, ma era sempre un costo che gravava su un componente della famiglia indesiderato da…»

Madre. Tutto questo vuoi dire. Quanti sono i petali di margherita rimasti? Li hai donati tutti ad altre donne, per me, cosa offri per me?

«Byron, cosa fece Katherine?»

«Mi ha ingannato, mentre l’alcol corrodeva mio padre che tornava a casa a sera attardata, mentre mia madre guardava afflitta disfarsi tutto. Piansi anche io. L’ultimo limbo a cui si stringevano le mie mani diventava un brandello caduto nel vuoto. Ero convinto che amava un’altra, Katherine aveva detto così, sapendo quanto tenevo alla felicità di mio padre. Qual era la verità? Evangeline, la vuoi davvero?»

L’istante, il secondo, l’ora, perfetta in cui il cuore disperde il suo acido. Lei annuisce mentre Byron sbarra gli occhi, intrattenendo tutto il timore a galla.

«Katherine voleva andarsene dalla famiglia. Katherine non voleva me, voleva solo i soldi, un’eredità che spillava dalle attenzioni di mio padre, a poco a poco, goccia a goccia fino a riempire un vaso. E ora lo vedi, il vaso, trabocca, in frantumi di ceramica. Mentre la verità era solo un uomo deluso dalla morte del fratello caro. Ma nell’inganno che Katherine mi aveva tessuto addosso, dovevo difendere mio padre e porre fine ai suoi pianti. E lo vuoi il finale, Evangeline, lo vuoi davvero?»

Un sospiro. Non v’è bisogno che legga il suo volto per scoprire la risposta.

«Ho ucciso mio padre.»

Si sente una macchia d’inchiostro. Isolata. Stacca la mano da Evangeline, la guarda negli occhi disperso, ferito, il viso sfregiato in una smorfia di sconforto che per poco non si trasforma in pianto. Ma lui è forte, non può piangere, anche se il rimorso lo è di più. E poi le macchie d’inchiostro sono già un immensa lacrima partorita da uno scrittore distratto.

domenica 23 gennaio 2011

I Can Wait Forever, Interludio IV

Lo so che conoscere la storia a spezzoni, saltando da un blog all’altro, è un po’ scomodo. Vi chiedo solo d’avere pazienza. Procediamo veloci, e in ogni caso potete sempre ricorrere alla pagina creata apposta per fare meno confusione possibile ;)

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Sfiora il corteo, bianco, una crisalide di lapidi spezzate e poi subito nere. La scia del suo dito, l’unghia tonda, che scivola fluida in una scala gentile, le fa crescere brividi di solitudine in seno.

La tentazione a cui sta per cedere il suo amato è languida, mortale. Ha paura che quelle dita, come filamenti spinati, ricadano in cenere nell’alternanza del campo santo nella quale, ora – per sempre – incide il suo tono. Più in alto, imperioso, come un mare di vetro in frantumi.

La stanza è un locale oblungo, illuminato dalle luce di un camino che arde nel rossore delle sue braci e combatte la notte, una fiamma s’infila come un’ombra lungo la parete e crea un ramo frastagliato, un teatrino di luci e tenebre circonfondono il tutto. Un pianoforte, un uomo su uno sgabello, una donna oltre la coltre di legno scurito, in fronte all’amore impersonato.

«In principio ci furono due mani. Odorose d’inchiostro che s’amavano in un intrecciarsi perpetuo, profilate lungo una penombra interminabile. Un’assenza, un’angoscia che premeva nel petto dei due. Si contesero, appena, per sempre. Combatterono a rose rosse e talvolta dal nero gentile, asservite con rovi che stillarono sangue puro. Poi nacqui e sfilarono cinque anni senza accorgermene, intrisi nei miei occhi di bambino. Da Le Havre, la vergine neve imbiancava i loro animi insanguinati d’amore, scappammo a Vaucluse, Valensole. E là, le lavande imperversavano in un oceano di ametiste, acute, rozze, accoglienti come le mani dei miei genitori.»

Scomposta, il suo respiro ansante le percuote il petto, ansiosa. Pretende. Sta seduta in una poltrona, ricamata con rami neri e foglie di primavera beccate da passerotti infatuati. Sta in fronte a lui e lo guarda negli occhi.

«La conobbi che era appena cominciata l’estate, in uno di quei giorni in cui s’attendeva oziosi lo sboccio delle lavande, così frementi d’avere in corpo il profumo screziato di quei fiori, in cascate di gemme dal proprio stelo. La conobbi che di nascosto m’ero inoltrato in un campo violetto, i fiori trattenuti ancora a sé, alcuni prematuri reclamavano la loro morte per sfuggire all’astiosa vita solitaria, in attesa dei loro fratelli. Ne raccolsi una, la spiga più bella, piegato, con gli occhi accesi di stupore.»

La musica intorno a loro, quelle note che salgono al cielo e ricadono meste, s’accorda perfetta, richiudendo porte d’inferni e paradisi al loro passaggio, alla voce narrante che novella un’immagine e ne interpreta un’altra.

«M’ero piegato, le dita strette intorno al verde del gambo, premevo con forza perché venisse via. Il tatto, scottante, invasivo e distorto d’altra pelle, che sfilava dal terreno la pianta novizia. Ci ritrovammo instabili, la spiga violetta stretta nelle sue mani. Nel trionfo di due volti. Uno solo.» Lei lo guarda, la sua pupilla dilatata trattiene nell’intenso il buio, distoglie per un istante lo sguardo.

«Le disgrazie, Eva, sono ghiacciate. L’amore però s’accende del rossore soffuso, placato, dei suoi capelli. Lei, impacciata, le mani in grembo, lasciò la lavanda a me, e s’allontanò d’imbarazzo dipinta sull’esanime pelle.»

Byron cessa la fugace melodia. Le candele brucianti ai muri indorano i contorni del pianoforte come filigrana di sole ad accendere picchi d’intimità.

«Per poco non scappò. Oramai ammaliato, corsi dietro al suo fuggire, lo strascico della bianca veste che le copriva le gambe in una corolla di giglio, rialzato tra le mani. Era lacera, povera, sporca. Timida come la farfalla che si posa sul suo primo fiore.»

«Sai, mio Byron, ho un inconsueta passione per i tuoi racconti. Sono bestiole ammansite dalle tue sillabe, sussurrate col dolcezza, intrinseche di melanconia; accendono fuochi di gelosia in me. Continua, oh mio Byron, pure per sempre.»

«La trascinai a casa, corremmo come due fiori estirpati dallo stesso stelo, mano nella mano, e pian piano calava la sera.»

Evangeline esitante, chiede, il farfugliare delle sue mani a mezz’aria è il giogo di un linguaggio profondo, taciuto.

«E fu tua?» Lui affranca un dito alle labbra schiuse, lascia che il monito plachi tutto, cali il sipario di un intoccabile silenzio.

«Mio padre la raccolse in casa, mia madre l’occhieggiò come un gatto randagio, e lei odiava i gatti che d’estate sgusciavano nel verone passeggiando.» Stacca il dito dalle labbra, semoventi, il monito spezzato, le dita che scompaiono sulla tastiera del pianoforte.

«Non aveva famiglia, lei era il reietto a cui tanto aspiravo, il fascinoso terrore che mi incastrava nella trama intessuta. Mi amava, o faceva finta.»

«E basta? Solo questo?» Pensierosa, le palpebre che si socchiudono in una foga, la smania di un bacio, mosaico di ciglia.

«Era il mio segreto più turgido, il rampollo di un fiore d’oro che splendeva ai tramonti di baci, le lavande sotto i nostri piedi intralciavano il passo. Che amore, quel profumo, la fragranza di toni assaporava il bacio. E fu il mio primo bacio, l’inimitabile.» Si blocca, la musica attorno si riaccende con un botto basso. Le mani avevano sbattuto con forza contro i tasti, poi di nuovo silenzio. «Oh, Evangeline, l’emozione che trasudate è un concetto d’invidia pura, non vogliatemene. È una parte importante. È d’infanzia.»

«Non curartene, Byron, è solo il mio cuore che piange a tradimento. Avrei voluto esser io quel papavero appena colto e curato con tanta passione. Quando l’hai baciata, che sapore ebbe?»

«Un sapore diverso. Ha sapore? Tutto ciò che è tensione allo spasimo, ha tutt’altro sapore. È lo sbocciare di un mondo silente, dove le timide roselline crescono sottosopra e sopravvivono alimentandosi di brividi contrastanti. Perché con lei, c’era una soglia focosa in cui sprofondavo lieto e incauto e spiragli di brina che stoccavano ai fianchi.»

«Qual era, il suo nome?»

«Katherine.» E mentre lo dice, contrae la faccia in un espressione dolosa.

E poi s’alzano, statuine affusolate che vagano sul palco di un carillon stonato.

Riprenderai, mio Byron, perché nell’altra parte, son sicura, il soleggiare del giorno mi aiuterà a non averne paura.

giovedì 20 gennaio 2011

I Can Wait Forever, Interludio I

06/03/1823

Londra, Casa Hinchinghooke.

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La tela s’incava sotto le sue mani sottili. Il corpo di una donna, apoteosi di piacere che rifugge dall’armonia fatale, la matita che consuma la sua grafite nei tratti grossolani e imprecisi delle sue fragili dita. Il tramonto tinge d’oro le fibre tessute, così delicato che pare quasi mortificare il suo animo con la fuggevole bellezza dei suoi nastri. Passati lì per caso a condurlo in una scia di docile piacere.

Vi amo. In ogni secondo. Ascolto l’organo che abortisce voi nell’accordo di rimembrarvi sempre. Prima o poi.

Un movimento più in basso, strascicando le forme di un braccio, i pizzi e i merletti affinati dal filare una mano. Fasci di lavande a ricoprire il tutto, un universo frammentato, una marea ritratta nell’odoroso ricordo. È così forte che quasi infastidisce: l’alcol che permea forte e stilla di dolore acidi tagli. Le lavande hanno l’odore di fiori blu in un campo deserto. Hanno odore d’oceano, di quello forte, del sale che corrode la stessa tela, fino a sfinirlo nelle lacrime che cascano in frantumi d’infanzia.

Si vede appassire, sfiorire greve, sulle gambe petali seccati, strappati crudelmente alle rose ch’aveva donato alla madre al suo arrivo. Poi sospira. La matita gli sfugge quasi, ma stringe di nuovo, deciso. Si sente burattinaio, costruttore del miraggio, artefice di una composizione incisa a parole, e visioni sussurrate nell’inseguirete il distacco.

Un sibilo fioco più in fondo, asciutto, gli annunzia che la matita ricade al suolo, nello scoccare, all’unisono, del suo cuore.

Mani. Mani. Ancora mani. Mani che si allentano, come un affresco decadente, separati da una crepa che apre uno squarcio inafferrabile. Un vuoto marginale. Il vuoto in cui ricade, straziato come i suoi sogni, amori affacciati da un oceano di carta.

Non era mai stato un bravo pittore. Ci aveva provato, talvolta, suo malgrado bozze increspate e sporche, stracciate delle proprie mani, abituate forse all’inseguire l’inchiostro, che ad altro.

Il ribollire ridente dell’acqua, il pennello che vaga nella frescura del barattolo di fragili vetri incrinati.

Veloce. Il chiaroscuro sulle ombre delle mani, il respiro trattenuto un attimo prima di scoppiare. Li ha dipinti. Apparsi misticamente come anelli su un fondale ingrigito.

Il violetto, la punta d’ametiste fuso, così fluido a puntellare gli steli. Indorato è l’orizzonte in cui si spiega il fragile volare della sera, su ali arrossate d’imbarazzo.

Mancherebbe solo il piano, si dice. La melodia che l’accompagna algido nell’altalena di soni, frammisti e fragili, il cantilenare d’inaudite sirene.

Sirene, vi prendo e vi porto via. L’inganno della bugia che serbate in seno, siero invischiato al petrolio più oscuro, vanifica ogni vostro respiro.

Madre, sapete del ricadere di gocce in un pozzo profondo.

Una scia rossa gli imporpora le gote di lui bambino. Screzia gli occhi in un temperamento che sa di cioccolata, mista a lacrime di cannella. Ha il volto sporco di terra.

Piange.

Poi una danza più oscura, più dolce, l’infinito, il tremore del cuore afferrato d’altre mani…

Lei profuma di crisantemi, invece. Ha petali che sono ciglia, lunghe, sottili filamenti di violino, sbocciate nel rigoglioso silenzio che vi cresce dentro. L’intimità odorosa di lapidi e petali fusi nell’essenza del suo respiro.

lunedì 17 gennaio 2011

I Can Wait Forever 8

Domani finirò il template che sto costruendo. Con calma domani cambierò le date alle lettere, così che coincidano con la veritiera velocità dei cavalli. Metterò gli appositi link, e tutto insomma. Ma domani, e posso aspettare.

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26/02/1823

La finestra cigola. La candela fraseggia nel suo tremante abbraccio. Nastri ocra screziati sulle pareti di questo pallido inferno. Davvero, potreste capirmi? È opprimente, le lacrime di vetro che ricadono in acide spire sul mio volto mi corrodono le gote, arrossate dal mesto e melodioso flautare basso dello scuro, che ahimè, subito, ora, incrina la volta celeste.

E si tinge d’immenso, la notte. Una vena contorta frange il cielo in miriadi di diamanti fasulli, ricordi soffiati dal vento, si gioca a biglie sul terreno arido e febbrile di questo lutto.

M’avvicino. Ha il volto infiammato da ciocche che increspano come carta straccia la sua fronte. Ho appoggiato le mie labbra, anni orsono dal distacco del mio respiro a quest’anima pia. Il guanciale la stringe, è una morsa fatale, insipida. La donzella non è altro che la metamorfosi, il feto intricato nel suo pensare, così assorta… svegliati, mia bella.

Un bacio. Tutto quello che desideri?

Un altro passo. Un altro grido.

«Chiudete la finestra!»

Un altro silenzio. Un altro. Un altro.

Capocchie nere che appassiscono nelle braci di queste lanterne. Fiori, ancora fiori. L’odore inebria d’alcol, cognac, acquavite, fragole e ciliegie raccolte in grembo. E d’un tratto la vedo, la mano che si cinge a me e mi trasporta verso i lidi d’un passato… picchiettato di mari, nevi che scendono. Oh, mia dolce Provenza. Le lavande in fasci sbocciano come sogni nell’azzurro del cielo che sfuma le sue nuvole come creste spumate, amorosa morte di sirene alla deriva. Camminiamoci ancora, oh madre, tra questi signori d’ametista schiariti che accordano il mio cuore al vostro, e d’un tratto sono assieme, note all’inverso tratteggiate nel vostro sorriso.

«Ti voglio bene.»

«Anche io.»

Strinsi il lembo delle sue vesti e ridetti. Gaio come un angelo caduto, beato della sua ribellione a Dio, logorato dalla fiamma felice che vi vibra in corpo. Oh, madre, lacrime amare al melanconico ricordo.

La trascinai per una mano, il polso così seccato ai vostri sbuffi, tutti da convincere, fasulli come l’illusione del vostro riposo mortale. Tra l’altre dita lasciai correre i fili candidi fioriti dell’aquilone, ricamato coll’amor vostro. Oh, lo vedete? Vola alto, verso voi, lascia che le vostre mani s’appiglino stanche come ultimo doloso riscatto a questa vita, e poi rifugge vigliacco, lasciandovi sull’orlo stroncato del purgatorio. Ma meritereste solo il paradiso.

Farò il pianista, vi dissi un giorno, madre. Vostro era il picchiettare ferrato e algido, saporoso di siero, che ascoltavo ozioso nell’altre stanze, sull’altre carte sudate dello studio mio, frammisto al mio cupo ansimare interrotto dall’incanto da voi tessuto. M’alzavo, allora, inseguivo la scia del vostro suono nelle dimore che ho lasciato. I miei occhi vagavano sul vostro divorare le note ammansite, un diesis dall’innalzare solenne il suo imperioso comando, un bemolle dall’acquietare il mio animo. V’amo, madre. Ora è il per sempre.

Studiai piano sotto la vostra veduta. Sulle stringhe di quell’inchiostro, tuttavia, vi dissi, farò lo scrittore.

Avrei bucato storie, vi raccomandai, con lo stesso solerte tono delle vostre dita. E sarebbe stato fatto con la sacrale impronta dell’animo vostro.

Sparisco, vi dissi, un giorno. Ritornerò, l’altro.

Tagliai quel filo d’Arianna come l’estirpare un fiore di lavanda dalla terra. M’aggrappo al peccato mio come le nuvole sopra il cielo di Fiandra.

È ora, v’è morta? Su questo capezzale sfiorito giace la rosa scarnificata da Dio.

E che la paghi, tra le spire di quest’incendio sfiorirò anch’io, vorrà dire. Mi ritroverete, tutti, che sarò solo il silenzio bruciato da queste lacrime. Mi vedrete, tutti, sparire come la donna immacolata nella crisalide del ricordo, su questo letto.

Oh, vi racconterò la mia infanzia, monna musa. Un giorno o l’altro. Forse mai.

domenica 16 gennaio 2011

I Can Wait Forever 6

Potete leggere i capitoli miei e suoi in questa pagina.
19/02/1823 – Terza lettera alla mia amata.
Le Havre.

Vi scrivo sopra i banchi di una stanza abitata da ricordi troppo densi, si fanno strada, vibrano come echi negli anditi bui di questo palazzo, ove ora ricucio la mia infanzia. Sono nato qua, vi ricordate? Rammentate di quell’estate quand’io vi conobbi? Era sera, e il vento laminava ogni stanza, le luci delle lanterne ch’ora sporgono da questi muri illuminavano il vostro volto, così ambrato, delizioso, miele funesto, insito del veleno più dolce.

Rimembrate le ore gentili in cui la vostra mano scorreva sulla tela ora vuota, ora colma dai tratteggi di esili pennelli, i volti che prendevano vita nelle tinte decise che incidevate con grazia propria, e si affinavano lungo gli orizzonti che ponevate, cesellati tramonti che… Le mie dita s’aprono lungo l’aria, sento lo scoccare del vostro cuore, il pennello impietrito nella mano vostra destra, richiudo con fermezza il pugno dei miei brividi al vostro polso, il pennello che casca giù, quel lieve sibilare che sfuma nell’ombra delle vostre labbra volte alle mie e in quell’attimo, un frantume di silenzio sceso in mezzo, i cocci si ricompongono nello scorrere dell’elisir di lunga vita. La porta s’apre.

Un vostro bacio, tutto ciò che bramo.

Proprio in questa stanza, bruto scherzo del destino che mi distoglie dalle parole.

In questi quadri incorniciati da trafori d’oro, leggo quasi il distacco che v’ho sempre posto, quello che v’è dall’oro alla tela, il passepartout, un lenzuolo candido in cui vi trattengo. Per farvi sentire unica regnante del mio corpo. Questo porgervi lontana, questo voi che v’incava nella crisalide di cristallo che ho cercato di costruirvi attorno, invano.

È normale, penso, che questo filo s’allunghi sempre più. È normale che prima o poi sarà crudelmente reciso.
In serata ho fatto una camminata nei dintorni. L’aria tagliente e la neve che insiste s’era placata, e la patina a ricoprire il tutto, dolcemente, ha reso una piacevole passeggiata nella quiete di questi anni. Si respira un’aria stabile, un’armonia dei sensi che quasi mi trasferirei qui. Sapete, vi ho comprato una tavoletta di cioccolato, quello che voi amate, alla cannella. Lo divoravamo assieme di nascosto, rubato dalle riserve in cucina. L’ho avvolto in una carta che scricchiolante era dir poco, crepitava, rossa, come il fuoco del mio cuore, come quella vampa che è finita per ardere anche voi. Ho messo il nastro, come il broncio, l’ira inestricabile che so abbiate in volto quest’ora e non saprete mai perdonarmi.

Ora, la tormenta si è risvegliata. Vi devo lasciare, quasi le mie dita non riescono a staccarsi dal pennino impregnato dall’odoroso inchiostro di cui è amante, e scenderò giù nella tavolata di questi miei parenti, già immagino le candele che bruciano come il nostro amore, da troppo tempo cristallizzato nelle lacrime dei dorsi e, oh, mai consumato.

Domani sarà la volta di partire. Non vedo l’ora che quest’inferno finisca per riavere le vostre mani, labbra, il vostro corpo.

Ritornerò. È una promessa.

Non vi muoviate. È un ordine.

sabato 15 gennaio 2011

I Can Wait Forever 4

La corrispondenza continua, ancora, forse per sempre. E’ sul blog di Francy che potete leggere la risposta alla mia lettera, e più sotto la mia.
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12/02/1823 – Seconda lettera alla mia amata.
Parigi.

Oh, mia dama, che quel filo rosso di cui v’avevo parlato non imbrogli davvero il nostro fato? E che esso sia sgraziato non v’è dubbio.

Notre-Dame è una stella scesa in cielo, di quelle infervorate dai sospiri della mezzanotte. E mentre questa scoloriva i suoi panni oramai usurati, è dentro al mio core che s’aperta una frattura.

Stamane, il nitrire dei cavalli fu il tristo annunzio della mia partenza. Con tal rammarico ve ne chiedo venia, che il vostro solerte animo non disdegni ciò che mi spinge a farlo.

Parto col respiro asciugato in ciò che scrivo, sulla mia grafia è dove passa il vento. Poiché ebbi la sacrale notizia di mia madre, che reclama il mio nome al suo capezzale morente. Mi sento quasi in imbarazzo a confidarlo a voi. E pure è tutto questo che posso fare, celarmi dietro la vostra ira che scalcerà ai portoni della mia residenza. Ho paura, mia signora, che quando voi arriverete agli spalti di questa città, io sia già troppo lontano per udire ancora il romore del vostro battito.

Ora vi scrivo, il calamaio stretto tra le cosce, sulla condensa di questo finestrino che frappone il mio sguardo al mondo. Bagna il retro di questo foglio, così sottile. A vostra differenza, non ho valigie su cui incidere le mie sentenze, non ne ho portate. La fretta che mi ha ingiunto il grave stato di mia madre ha indotto a portare solo le carte della mia novella, racchiuse in una sacca di camoscio marrone, e fogli bianchi a cui è stato estirpato quest’immaturo su cui ora scrivo. L’altri fogli, casti del mio inchiostro, saranno impregnati dal dolore di questa imminente morte. Il dolore di una, ahimè, certa morte a cui vado a porgere i miei ultimi saluti. Ma sarà un attimo, ve lo giuro, mia dama.

E ancora gli attimi che ci separano sono infiniti. E non è forse vero che un attimo è per sempre?
Londra, mentre osservo questi fiocchi di neve che scendono giù dalle stelle, è l’angosciosa sorte a cui vado incontro.

E che sappiate perdonarmi. Stringere il nodo della benedizione attorno ai pensieri che mi concederete, che sian lieti o mesti.

Oh, addio, monna musa!
Addio! Addio!

POST SCRIPTUM: Speditemi le vostre lettere a Casa Hinchinghooke, nell'amata Londra a cui sto per far ritorno. Al mio arrivo, avrò modo di leggerle.

Ho ancora bisogno dei vostri umidi baci, non scordatelo.

venerdì 14 gennaio 2011

I Can Wait Forever 2

In risposta al post di Francy.

10/01/1823 – Lettera alla mia amata.
The_inkwell_has_gone_dry_by_urbrainondrugs73 Io posso aspettare. Per sempre, forse, per un secondo, due o magari anche tre, l’inseguire un filo rosso che imbroglia il nostro destino.

Ti scrivo che ora è sera, con macchie di luce come steli allungati sulla pergamena, muovo le dita e il pennino scivola, con la sua piuma, sono impigliati i nostri sogni. Oh, mia donna, c’è sempre la paura che essi s’infrangano per la strada.

Ora, il crepitare del fuoco, ch’abile dolor frammisto alle note più basse della tua mancanza, scalda queste lettere, forse troppo acute, algide, vigliacche.

Ora, avrei voglia di tirarmi indietro.

Ma ahimè, questo pensier che mi strugge, questo filo rosso che pian piano storno a me, e che un giorno all’altro, finirà. E tu, magari, tra le mie braccia, mi dirai ti amo.

“E... m’ama? M’amerà”. Pizzicheremo assieme petali di margherita, per scoprirlo.

Tra poco, quest’arso crepuscolo, si laverà da solo, tingendosi in un corteo abbagliante di stelle, che fioco bisbiglia alla luna. E io, non son forse tra quelli? Non son forse, anch’io, a bisbigliare il mio rorido amore a te luna, alla più bella?

sabato 18 dicembre 2010

L’ultimo

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Prima mail.

Mi hai detto che è finito il mondo. O qualcosa del genere che s’intersecava ai termini apocalisse, armageddon. Ho sempre intravisto una possibile fine del mondo, benché non sappia precisamente di quale mondo si tratti, è quella breccia nel muro che spira aria gelata e che ambisce a risucchiarci. Ma adesso, ciò che voglio capire è la fine del mondo. Il concetto in causa implica l’estinzione di ogni singola forma di vita su un piano compatto o astratto, come preferite, ad ogni modo si parla di un piano, un’asse dove la vita prima della fine del mondo era ammessa. O forse mi parlavi di apocalisse? Qualcosa, una speranza che stava per abbattersi sulla terra e sterminarci tutti. E ci ha sterminati, o siamo ancora in vita? Non saprei certo dirtelo. Non saprei dirti se sono l’unico rimasto su questa terra, l’unico e se ne sta’ davanti al pc a scriverti mail a vuoto. Non saprei dirti se un meteorite è caduto sulla terra e io semplicemente mi trovavo un po’ più in là…

So solo che questa maledetta solitudine mi punge il cuore. E se è davvero finito il mondo, adesso mi affaccio dalla finestra e non c’è niente. E non ci sei. Forse è per questo che non né ho il coraggio.

Seconda mail.

Sono andato un attimo in salotto. Non è ciò che pensi, non ho guardato fuori, le finestre avevano le tendine scure calate e le tapparelle chiuse per benino, come hai ben capito non avevo nessuna voglia di cercarla, questa maledetta fine.

La mia casa è sostanzialmente intatta, oltre ai bicchieri di cristallo mezzi smozzicati dentro le vetrine, ma quelli sono così da sempre e sempre lo saranno. Mi chiedevo per il sole ma già ti ho parlato delle finestre… non filtrava un raggio di luce. Dovrei preoccuparmi forse, e correre subito a spalancarle per farmi baciare dal sole d’estate. Non l’ho fatto. Lo sai che sono un fifone, uno di quelli che vivono da soli con la tv accesa che parla da sola, per riempirsi un po’ di più da una disinteressante compagnia, ma pur sempre compagnia. Sai pure che io sono uno di quelli che sono per appunto soli, e ti ricordi Maddy? Il mio amico immaginario, quello che avevo da piccolo e poi puff! Un giorno mi sono svegliato e non c’era più. Beh, lo sai. Sono uno di quelli.

Mi sono avvicinato alla porta, con un po’ di coraggio raccolto in petto. Ogni giorno mi lasciano il giornale facendolo scivolare dalla soglia. Ecco, non c’era. Oggi nessuna copia mi aggiorna sulla fine del mondo, forse per il semplice fatto che sono spariti tutti. E allora? È davvero finito il mondo? O forse… si è fermato il tempo!

Terza mail.

Ti avevo avvisato sui miei sospetti che il tempo si fosse fermato. Sono di nuovo qua, al pc, e ho guardato in fondo a destra, e i minuti continuano a scorrere. Oh, scusa, che sono sciocco. I computer sono solo macchine e continuano a rimandare il tempo per sempre e anche se esso si fosse fermato non conterebbe nulla, nevvero? Allora, secondo il pc sono le 19:30, la sera dovrebbe essere calata da assai. L’unica cosa che potrei fare per accertarmi è aprire le finestre. Ci provo, però tu nel frattempo rispondimi, sai, così mi dici che il mondo non è finito ed era tutto uno scherzo e che magari non sono solo.

Allora… vado?

Quarta e ultima mail.

È pieno giorno.

E la città è un lastricato d’acciaio contorto che si disperde nell’immenso.

E tu, tu, non mi hai risposto!

sabato 6 novembre 2010

Frostbite, 3

Ho deciso di spezzettare i capitoli in brevi episodi, in quanto mi sono accorto che i capitoli sono lunghi da digerire e da leggere al pc. Anche se so che tanto non li leggete. Quindi, anche se ho finito il 5 capitolo e sono più o meno a trenta pagine, vi posterò più volte a settimana brevi spezzoni di due pagine.

Via.

* * *

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La mattina attardava già, su un sole timidamente velato da nuvole che promettevano tempesta. Le ferite dolevano ancora, fasciate con la garza, alcune cucite dall’infermiera alla tarda serata di ieri. A volte però il dolore diveniva sommesso, sparuto, unguentato da erbe medicinali distillate. Syria aveva passato una notte tormentata da una luna svuotata di sangue, sporta come una bastarda, dalla base di nuvole che parevano lapidi distrutte, o teschi su un letto di buio. Ma nulla aveva osato sfiorare il suo pallido corpo. Che elemosinava passione taciuta e nuove scoperte, quasi una mendicante ai piedi di una chiesa.

Il corrimano era lucidato, placcato da un perlaceo tocco di cera. Il legno risaltava come uno specchio inargentato, mentre gli scalini si dipanavano ad avvolgersi su se stessi, veloci. E l’intonaco cedeva nell’aria, protratto a raggiungere l’evanescenza, polvere sollevata da una luce che serpeggiava fra i dedali del Convento.

Syria bussò alla porta, con mestizia e finta rassegnazione, mascherandosi in una scia di disgrazie che le mascheravano il volto. Il gelo del chiavistello era un arma al passato, echeggiava di ricordi perduti, ambrati nello scolorire la chiusa della biblioteca.

Madame De la Croix, con le croci appese al collo, indorate e fregiate nelle linee arcuate, rose sbocciate sulla pelle inumidita dalle lacrime dell’insana follia che accompagna la vecchiaia. E i capelli ingrigiti, filamenti in cui sfociavano serpi nere. Aveva perso i ricci anni prima, passando a una zazzera di serpi velenoso che sputavano inchiostro come veleno.

Sei forse tu? Sfrenato incanto di donna dai rossi capelli, a vorticare nella schiera del mio sadico cuore?

Son poeta e menestrello. Un bacio, mani che odono i rabbui del tuo cuore oltre un muro di ghiaccio.

«Vi porgo i miei ossequi, Madama» Syria, avvolta in una veste di tela slabbrata, chinò il corpo come una ballerina giocattolo, rotta nel suo prostrarsi.

“Avevi il puzzo di alcol, quando m’avevi preso da terra. Solo questo mi ricordo. Quante bottiglie ti sono rimaste?” Ghignò fra i denti serrati, trattenendo a stento la risata per l’aria che malcelava i calici d’idromele a untumare gli scaffali.

«Buongiorno signorina. La biblioteca non è aperta per voi sgualdrine. Avete un nome?»

“Da qui si nota la follia che pervade il cuore, conteso nella perdita della memoria. E dico, cos’è un nome? Un riconoscimento? No. Arrestare l’anima.”

«Madame, volevo che prendesse in considerazione l’idea che una Vestale, come me, avrebbe potuto dare una mano coi libri» Oh, non notate? Machiavellica finzione, gli arti gelati nella tensione di una risposta. Non notate davvero? Hai i sentieri persi in tugurio di nebbie, in cui se agguanti la nebulosa giusta, essa porta alla base di un cielo spinato, che splende d’ambrosia nella sua traslucida insicurezza. Non notate, vero? Bene, perché come ho detto, è tutta finzione.

«Il mio nome è Syria»

«Oh cara! Entrate, v’aspettavo» Madame De la Croix è arsa dal fuoco degli anni, sconta pene in un purgatorio chiamato perdizione. E se a tratti oscilla, sono solo le sue ossa che si sbriciolano in farina.

Nel volto drappeggiato dalla mollezza si voltò per accennare d’entrare, nell’atrio della biblioteca.

lunedì 1 novembre 2010

I papaveri perdono i petali

Per Halloween, non ho avuto un’ispirazione così forte da indurmi a scriverne un racconto a tema. Sarà che il macabro stona col delizioso sangue di lussuria. Sarà che per un po’ di tempo non voglio parlarne, di sangue e morti. Anche perché ho finito il quarto capitolo, vi devo far ancor leggere il terzo, e il senso di morte e il sangue s’è disperso là. Consumato. Sarà che devo ringraziare Braldbury, per il suo racconto sull’adolescenza. Ah, se non l’avessi letto ciò che leggerete non ci starebbe qua sotto. Infine il titolo si rifà a una poesia scritta e postata tempo fa. Quando parlavo di due papaveri che stavano attenti a non uccidersi, perchè cercando di baciarsi rischiavano di perdere i petali. Qua c’è il fatto che forse se ci si è uccisi, scoppiati, l’amore suona meglio.

Quindi, buona lettura e buon tutti i Santi.

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la_nascita_di_venere_by_metaltoby Dabbasso vedo Venere macchiata di sangue. Il sorriso s’allarga sul volto, una bramosia smaniosa arde di baci sulle labbra carminio. I capelli imperlati ne orientano il desiderio non più smorzato, ma riflesso nel suo assecondarlo. Forte, potente, intrecciato fra filamenti vermigli.

Si tocca i capezzoli, di nascosto, dai seni sporti con infinita dolcezza.

Dall’altro vedo Lachesi, col fuso che gira, vortica, furioso. Ed è proprio quella furia che m’agguanta nell’interseco di lingue di lava che insidiano il mio cuore. Scottano, bruciano tra loro, si stringono le mani sull’altare di lame infuocate. Partecipano al sacrificio d’inebriante piacere che infiamma la gola, gli arti ghiacciati in un ossimoro che diventa amore, – mentre tra le sue spoglie.

Lachesi_by_ScarletGothicaUn altro giro. Furente. Il fuso vomita un clangore d’anime dai volti sfigurati. I fili tesi, sono rossi nello sbocciare, nello sfregiare l’apoteosi, raspandola felici. Ed è proprio mentre scoppiettano, nessuno soffia. Ma s’avvina, colei che ne recide il destino.

La vedo, pare vestita di spuma di mare, coi pizzi che ne sfumano il candore fra l’innocenza eterea in cui s’avvolge. È bugiarda, come la luna. Tante facce. Atropo ostenta i suoi occhi d’algido ghiaccio, la mano unghiuta, rimaste imbiancate d’alabastro, crepa le pupille, scandisce i fiori del male che di rosso s’infiorano a tinteggiarne il capo, ora aggraziato. Tenta, tende, storna e pretende. Ed infine, quando richiude il palmo tutto sfiorisce.

Atropo_by_ScarletGothica Con crudeltà disumana, Atropo lacera il filo che più rigurgita la sua lava sbavata. E le unghia si macchiano di peccato che tanto rammenta colore di vini imbottigliati in un tardo autunno. Tra le sue esili dita, il filone non smorza la sua bellezza, bensì deflagra invadendo una bianca tela in uno schizzo di confusione.

E siamo sdraiati là. Sul prato che verde e rorido, si veste addosso profumo di terra appena bagnata; abbiamo le mani che affondano in essa e più ne scaviamo le profondità, più siamo contenti d’affondare le fosse del nostro amore. E c’è fango, sui nostri vestiti. Saliva corona le nostre labbra schiuse tra loro, si toccano come petali di papaveri, a cercare un appiglio che può fungere da dolce vascello dei sogni. Guardando i tuoi occhi, traghetto in un limbo d’assenza. Un limbo che d’intensità ammalia chi riesce a scandirne le carni, a cogliere l’essenza che vibra incostante e che corre a briglie sciolte; non si fa prendere mai.

Cooling_Lava Lingua nella lingua, s’avviticchia in una spada aulente di languida primavera. L’imbarazzo s’aggruma come sangue sulle gote, ma c’è il sorriso – forse la traccia di una parvenza d’infinito – che si traccia nell’abisso e che trascina me… a riposare per quell’istante di inebriante piacere le mia labbra sulle sue. Uno schiocco, come un battito del cuore; un respiro. Le esalo la promessa di una vita.

Ci stringiamo le mani fino a che le nocche sbiancano, e ne ridiamo di questo, ma loS_R_Lawn_Kiss_2_by_EgyptianSushi strascico di separarle s’è perso all’orizzonte dell’indomani. Fra i risi bruciati e i respiri anelati troppi in fretta da un cuore che batte e che vuole riscatto, siamo felici. Gracchiamo silenziosi ad assaporare il bacio, insipido, di un sole che scola alcol da i raggi pallidi posati sulle nostre vesti, sporcate dal fango, chiazzate dagli steli d’erba in cui abbiamo annegato i nostri cuori… ora fermentano. Chiudiamo gli occhi avvicinando le teste: La felicità… l’abbiamo uccisa? Mangeremo i suoi resti nella fossa quando il corteo funebre sarà sparito. E non saremo sazi. Mai.Poppies_by_charonferryman

Grido. Non respiro. Voltandomi a benedire la vita – e la morte - bendato. Sbatto le palpebre.

Dall’alto il cielo saluta, con la sua schiera d’arpie che occhieggiano da una nuvola; aggrappate con gli artigli ne lacerano le paste di cera. In fondo è solo il cielo, una volta di libertà che sfiora e poi subito rifugge da una perfezione che sa tanto di quel maledetto infinito. Ma sento che se alziamo il dito possiamo pure toccarlo.

 

sabato 16 ottobre 2010

Madame: Ocean Meadow

C’era il mare. Come il sole e le stelle. E c’era la sabbia, dipinta da setole morbide sul tracciarsi della risacca. Morbida, anelava nel gelo superstite, giorni d’acciaio.
Il vento soffiava da nord. Sempre. Come l’alba mattutina.
Madame aveva un pugno, e in quel pugno aveva stretti ottant’anni di vita. La brezza sciolse di salsedine le dita, che s’aprirono mentre gli anni scorrevano. In granelli di sabbia.
Madame intinse le dita, come morbide setole di pennello, nel mare. L’increspatura si frangeva in uno specchio, rifletteva ottanta anelli di fragile acqua. Madame aveva ottant’anni, come la brezza che soffia sempre da nord, e che in quel mare – come oceano di prati abbandonati – oscillavano, sfumando i contorni d’un cielo d’avorio.
Madame aveva ottant’anni. I grani del suo rosario erano ottanta, come i fori del suo scialle violetto, come il silenzio del vento che taceva nel rimorso che quest’ultimo s’avrebbe portato con sé, anche l’ultimo giorno intinto d’acciaio.
Ma il vento soffiava da nord. E questo bastava ad imbevere drappi perduti nell’ebbrezza del mare – come oceano di prati abbandonati – il sapore di un’estasi, ch’avrebbe portato con sé – fatale – anche Madame, col sonoro mormorare animi nel vuoto di solitudine del vento.
Il vento porta con sé morti. Riscatto di solitudine?

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NdA: Scritto sulle fascinose note di "Oceano Mare". Volevo proporvi un contest, più che un contest un confronto fra voi lettori, se volete partecipare, a tema vento-solitudine. Potrebbe venir fuori qualcosa d'interessante. 
Intanto esalo con un sospiro la solitudine di un sole piangente.

domenica 10 ottobre 2010

Infiorata

quando_si_fa_buio_by_Frugola

Mi concedi il tuo dolce volto, come corolla d’un fiore, al mio sguardo?

Lei è là, come un sepolcro imbiancato. Nient’altro da dire se non che tra le mani s’infiorano orchidee cremisi, filamenti bramosi accorrono alle porte del cuore. E chissà perché di quel rosso peccato son pure i suoi capelli, così nostalgici che s’infiorano essi stessi di rose calma passione, di rose Crepuscolo.

Quello stesso crepuscolo in cui vidi il tuo volto sfiorire di pallida brina.

Avevi la malia di chi frammenta le speranze lacerando stralci di vita.

Avevi il destino fiutato sui Tarocchi.

E io dipingevo il tuo volto, su tela.

Forse per ricordarti, per intingere della mia vera passione farfalle vermiglie ad infiorare il tuo nome.

* * *

«Qual è il tuo

nome?»

«Syria.»

Sa come lame crudeli di fragile cera.