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martedì 14 dicembre 2010

Nemmeno il destino

Inspiration_in_a_bottle_by_the_unhype

A volte è strano come le idee possano giungere in tale maniera così affrettata, paiono ardenti di essere scritte, modellate. Ma non lo sono mai pronte. Beh, quelli accanto sono le mie storie. Le mie idee. I miei sogni. Le mie trame. Non è fantastico? Non è commovente? Da’ un senso di struggimento… come un’esplosione dentro. Così, come colombe che sbocciano da rami d’inchiostro, ma solo alcune riescono a spiccare il volo. A essere libere da ogni fardello, ad essere adulte e serene. Alcune rimangono impigliate, a noi stessi. Come feti abortiti da una madre crudele.

Ed è così. Con un esplosione che tutto viene fuori. Quando si ha la predisposizione per accoglierle, le idee. Che arrivano così, si accodano, si snodavano serpentine come un ramo, aggiungendosi a quella linfa d’inchiostro desiderosa di sbocciare, di dare i propri frutti. Con un’immagine apparsa da deviant, il nome di una città letto sul libro di francese, una città della Luisiana, e una costruzione decadente e malandata, (penso sia un acquedotto, anche se stranamente circolare e con soffitto a cupola). In maniera semplice, in maniera dolce e frenetica, quella che come brividi ti percorre le mani a narrare le storie della tua anima.

Syria è giunta a metà del suo cammino, è proprio una colomba d’inchiostro, una rondine, che vuole spiccare il balzo. E’ là sopra, a sinistra, attaccata alle altre, immatura, trattenuta tra le mie dita. Per una volta, ho il dubbio che si tramuta in certezza, che io possa davvero concluderla. Mettere una parola fine, ma al contempo un nuovo inizio, concludere ciò che il destino non ha voluto che facessi, ma che io ho riscritto sui miei piani, sui miei accordi. La storia di lei e di me che non sono riuscito a fare, che il destino, il caso, oscure mani che ne hanno voluto scrivere esiti diversi, ma che io voglio riscrivere. Perché ciò non me lo può impedire nessuno. Nemmeno il destino.

sabato 6 novembre 2010

Frostbite, 3

Ho deciso di spezzettare i capitoli in brevi episodi, in quanto mi sono accorto che i capitoli sono lunghi da digerire e da leggere al pc. Anche se so che tanto non li leggete. Quindi, anche se ho finito il 5 capitolo e sono più o meno a trenta pagine, vi posterò più volte a settimana brevi spezzoni di due pagine.

Via.

* * *

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La mattina attardava già, su un sole timidamente velato da nuvole che promettevano tempesta. Le ferite dolevano ancora, fasciate con la garza, alcune cucite dall’infermiera alla tarda serata di ieri. A volte però il dolore diveniva sommesso, sparuto, unguentato da erbe medicinali distillate. Syria aveva passato una notte tormentata da una luna svuotata di sangue, sporta come una bastarda, dalla base di nuvole che parevano lapidi distrutte, o teschi su un letto di buio. Ma nulla aveva osato sfiorare il suo pallido corpo. Che elemosinava passione taciuta e nuove scoperte, quasi una mendicante ai piedi di una chiesa.

Il corrimano era lucidato, placcato da un perlaceo tocco di cera. Il legno risaltava come uno specchio inargentato, mentre gli scalini si dipanavano ad avvolgersi su se stessi, veloci. E l’intonaco cedeva nell’aria, protratto a raggiungere l’evanescenza, polvere sollevata da una luce che serpeggiava fra i dedali del Convento.

Syria bussò alla porta, con mestizia e finta rassegnazione, mascherandosi in una scia di disgrazie che le mascheravano il volto. Il gelo del chiavistello era un arma al passato, echeggiava di ricordi perduti, ambrati nello scolorire la chiusa della biblioteca.

Madame De la Croix, con le croci appese al collo, indorate e fregiate nelle linee arcuate, rose sbocciate sulla pelle inumidita dalle lacrime dell’insana follia che accompagna la vecchiaia. E i capelli ingrigiti, filamenti in cui sfociavano serpi nere. Aveva perso i ricci anni prima, passando a una zazzera di serpi velenoso che sputavano inchiostro come veleno.

Sei forse tu? Sfrenato incanto di donna dai rossi capelli, a vorticare nella schiera del mio sadico cuore?

Son poeta e menestrello. Un bacio, mani che odono i rabbui del tuo cuore oltre un muro di ghiaccio.

«Vi porgo i miei ossequi, Madama» Syria, avvolta in una veste di tela slabbrata, chinò il corpo come una ballerina giocattolo, rotta nel suo prostrarsi.

“Avevi il puzzo di alcol, quando m’avevi preso da terra. Solo questo mi ricordo. Quante bottiglie ti sono rimaste?” Ghignò fra i denti serrati, trattenendo a stento la risata per l’aria che malcelava i calici d’idromele a untumare gli scaffali.

«Buongiorno signorina. La biblioteca non è aperta per voi sgualdrine. Avete un nome?»

“Da qui si nota la follia che pervade il cuore, conteso nella perdita della memoria. E dico, cos’è un nome? Un riconoscimento? No. Arrestare l’anima.”

«Madame, volevo che prendesse in considerazione l’idea che una Vestale, come me, avrebbe potuto dare una mano coi libri» Oh, non notate? Machiavellica finzione, gli arti gelati nella tensione di una risposta. Non notate davvero? Hai i sentieri persi in tugurio di nebbie, in cui se agguanti la nebulosa giusta, essa porta alla base di un cielo spinato, che splende d’ambrosia nella sua traslucida insicurezza. Non notate, vero? Bene, perché come ho detto, è tutta finzione.

«Il mio nome è Syria»

«Oh cara! Entrate, v’aspettavo» Madame De la Croix è arsa dal fuoco degli anni, sconta pene in un purgatorio chiamato perdizione. E se a tratti oscilla, sono solo le sue ossa che si sbriciolano in farina.

Nel volto drappeggiato dalla mollezza si voltò per accennare d’entrare, nell’atrio della biblioteca.

giovedì 7 ottobre 2010

Borealis

 

 

aurora_boreale ~BorealiS*~

 

 

 

 

 

Borealis.

Anno: 1150- Gennaio. Luna del Lupo.

19:50 hrs.

 

 

«Ritorniamo! Siamo ormai lontane dal Convento.» Parlò una voce aggraziata, accolta nel suo reclamo di preghiera.

Il vento s’infiltrava, spirando nei suoi lamenti mortali, e si chiedeva come mai del suo abisso mancato; semmai qualcun l’avesse ricolmato al passaggio.

«Ritorna.» Come mai, ancora, il vento passa a lavare quegli animi puri? Come s’avessero altro da cancellare, come se sul quel foglio bianco di fragile cera s’allargasse una macchia da dover ripulire. Un astuto sentore d’aghi fra la pelle d’alabastro, il filo scarlatto inoltrato nella cruna saranno forse i silenti eoni, spettatori, dell’incanto smarrito? Che forse non è proprio smarrito…

La temperatura era stazionaria sui tre gradi. Il sentiero s’apriva, come un’aspra gola, nella neve fra le fitte fronde di pino, i loro aghi cristallizzati da rorido residuo di pioggia, lacrime d’argento. E nel cielo veniva come a tornare un serraglio di tenebra, demoni essenti in nembi incupiti.

Sguinzagliate le feroci fiere all’imbrunire. A far tornar Vestali in umida carcere. Diceva un detto.

«Alla carcere? Dovremmo forse tornare?» A pronunciar verbo raggrumato nell’aria era quella fanciulla persa nella mezza via del sentiero, nascosta nella volta di rami ossuti.

Nella notte che cala ha i capelli d’un rosso lieto, e sono quasi ondulati da una brezza gentile. La vestale ha occhi di ghiaccio come artici figli.

«Scende la notte, sbrighiamoci o chissà quali bestie…»

«Credi ancora a quel vecchio detto?!»

Era l’ululare di un lupo arroccato sull’altura canuta, lontana dal dove, a rombare fra le mantelle di cuoio martoriato.

Il volto della vestale infuocata sfiorì dal quel suo bianco malato in una scia di rosso imbarazzo, le guancie contornare da efelidi, ritratte alle palpebre degli occhi.

«Vedi! Andiamo!» La compagna al limitare d’inizio del bosco infedele era avvolta nella mantella irsuta di visone. La bocca coperta scricchiolava nei denti. I suoi occhi eran verdi, come le rane del pozzo.

«Cosa vuoi che sia un vecchio lupo?» Recitò in un carisma spezzato. «Per un’ultima volta, dai.» Aggiunse mesta, quasi il broncio dipinto sulle labbra pallide come petali di giglio o rose di ghiaccio.

«Quante frustate? Tanto me le prendo io.»

La vestale dai capelli cremisi e gli occhi di ghiaccio avanzò silente nel terreno scabro, osservando ciuffi di vita affiorare fra la mortifera neve. Si strinse ancor più nella mantella, assaporandone l’accogliente calore che donava la federa di lana all’interno, cingendo le mani attorno ai fianchi come a rinnovare una promessa celata. Sospirò, serbando il ricordo di vita condensata nell’aria, quell’alone d’opaca foschia perso nell’assorbirsi in altri mondi. Le mani, le portò al viso, scivolando le dita di plastica fra i capelli, le unghia spezzate di vestale ribelle, parevano colonnine ghiacciate passate sulle gote incipriate da lentiggini e un rossore aggrumato tutt’intorno. Era una donnina innocente nella sua machiavellica finzione.

Un fruscio. O è solo illusione?

Un attimo. Come se un segno del tempo fluttuasse nel cielo, come nuvola fusa in cenere che lascia trasparire un disco schiarito nella sua pallida porcellana.

La luna.

È l’amante violentata nell’inabissale passione.

È… quasi a un passo. Con un dito puoi toccarla.

Tangibile e impalpabile, ti guarda da lontano, relegata nella sua gabbia impenetrabile.

Un soffio, fatue fiammelle di candela, e le stelle si spengono.

Ma rimangono là, a far da corteo ad una luna che per l’occasione veste i panni di una cantastorie vissuta, con voce roca artiglia l’anima di una docile fanciulla persa nella sua imprudenza. È come un lupo, arroccato sulla sua altura, ulula nella dimenticanza del suo regno notturno.

Tutto taceva, o tutto anelava vita perduta. Affanno è il solo perdono di un’accennarsi della redenzione divina.

Torna a casa, bambina.

E la vestale si volse, ormai preda di quell’antica sonata intessuta fra rami scheletrici, e melodiose lune fra le fiammelle stellate nella volta d’onice che cangia in quel blu; presidio d’anime funeste. Ma non c’è donna ad aspettare l’occhio che corre, che vagheggia alla soglia d’inizio bosco. Ed il Convento ormai è un ricordo dipanato negli esangui corpi d’alcune nubi superstite della tenebra.

“Forse dovrei tornare… c’è freddo e ormai è notte inoltrata”.

C’era freddo, quel Vespro. Uno di quelli che s’insidia in ogni dove, raggela quel fragile corpo solo nel rimpianto. Poche lacrime, come sorsi di uno sciroppo antico, vergognate nella loro discrezione. Sono calde e salate, accolte dalle labbra appena schiuse; pillole di conforto? Se solo, per qualche segno dal cielo, si fossero cristallizzate in perle, anche un qualsivoglia dio ne sarebbe rimasto incantato. Ma quali squarci di madreperla potrebbero confortare l’animo solo nel silenzio d’inquieto vivere?

Di teschi sanguina il dolce ricordo.

Ancora, lo spirare che non cessa, di quel demone sopraggiunto dall’ovest, ch’ora come mai scivola d’antartiche banchise sulle candide capocchie sul mare sfaccettato. Son richiami a luoghi lontani, un giorno o mai materializzati nel sospiro di un albeggiare quieto sul vascello verso mete a noi ignote, poiché non è forse vero che il desiderio è ignoto e criptico al nostro sapere?

Ma non c’è tempo per discorrere di ciò che s’è lasciati dietro, e nemmen’avanti. La giovine strega sussurra uno scongiuro, affinché il serraglio di menzogne non la soffochi nel gelo. Un altro passo, e l’impronta lascia il suo marchio sulla neve, sono orme d’innocente purezza o vermiglie nell’errare il peccato?

D’improvviso è come se il corpo si fosse ceduto ad una corazza di carta velina, così inconsistente da lacerarsi al prossimo movimento indiscreto. È come una gabbia dai pilastri stridenti, ringhi di un lupo, qualche singulto scuote gli arti assiderati. Una pioggerella s’accennava nell’aria, è compagna di una dolce frescura che sa certo travalicare luoghi lontani, per sfuggire al pericolo di questi giorni. Syria, la vestale, per attimi fugaci vide il pensiero scorrere nella testa. Avrebbe voluto essere una dolce frescura, viaggiando incostante. Una brezza di nostalgia che s’infiltra nell’orecchio per reclamare saudade di terre lontane. E quasi rise, della sua sciocchezza manifestata nell’apparente eclissarsi delle sue forze.

Mi chiami buio? Infame custode della tua peccaminosa imprudenza?

I lupi del bosco faranno tesoro del tuo corpo, l’accalderanno nel loro manto fervente, come se fossi loro figlia: adepta di un dio minore e nient’altro!

A volte, il mondo cambia. Come il disegno di un bambino, paesaggi scorrono e si cancellano sotto la sua penna d’infante. A volte, tutto ciò, è di una bellezza infinita.

 

* * *

 

Aprì gli occhi, schiudendoli come ali di farfalle nel pulsare della vita.

Famigliare, come doveva essere: fra le lenzuola sfatte e le pareti di un intonaco ingiallito, nei silenzi ovattati di quel mondo di cristalli, che riluceva ad ogni sguardo. Nessun bosco e nessun lupo ad avvolgerla nella rassicurazione del sogno. Mosse i piedi infreddoliti, le gambe nude dalle ginocchia in poi, coperta da una tonaca di lino bianco, col bavero merlettato di pizzo ad attorniare il collo. Quelle gambe apparivano come svuotate dal sangue, come morte ed esili, pezzi di vetro. Le sfiorò ritraendo le mani subito dopo, avvertendo un sentore maligno, quasi un’energia spenta. Appassita.

Scalza allungò sull’impiantito i suoi passi, silenziosi, scivolando sulle algide mattonelle in una scacchiera infinita, marmorea.

Toc, toc.

Le imposte che sbattevano fra loro, sfregando le ante di legno incrostate di brina, fra gli specchi condensatisi sfocava gracile, un’aurora mortale.

Accorse al davanzale d’ardesia ingrigita, soffermando lo sguardo sul cielo dove braccia protratte splendevano d’un giallo schiarito, come orme su un deserto di neve, tortuose nelle sue forme serpentine a traversare il cielo, sventagliate ad alberarsi di vene. Una gabbia di luce, pietra immortalata in archi gotici. Così composta, quest’aurora,che nella sua volta impietrita non avrebbe ceduto al cielo, ma al contempo pareva spezzarsi, frantumaglia della sua insana stabilità.

 

Bianca d’Aurora

Sfiorisce mortale di

Pallido ghiaccio.

 

E in quel momento soffocò un singulto affiorato alla gola, e per un momento le vide. Le Anime Bastarde, venute a reclamare la penitente, ad ucciderla per aver violato le brame del bosco. Per essersi ribellata all’assurdità, alla moneta che decide col suo voltarsi la sorte funesta. Così ridicola che le Anime Bastarde l’avrebbero uccisa nelle insidie del sogno. Sì, le Anime Bastarde, i Figli di Gelo; a danzare nei vestitini blu, inseguiti da un’orda di cani che latravan bendati.

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NdA.

Ho scalato gli anni, poiché volevo giocare tutto in età gotica… ho tolto i giorni del mese, perché è impossibile trovare calendari risalenti al 1150. Grazie alla zia per aver prestatomi attenzione, come sempre. A giovedì col secondo capitolo!

Puntuali, eh ;)

 

 

 

lunedì 4 ottobre 2010

Luna della Vendemmia

Non vi dico niente, leggete e basta. A giovedì col primo capitolo!

*

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Prologo.

Lettera I. – 21 settembre 1892. Luna della Vendemmia.

23:00 h.

 

“Addentami”. Grida una voce.

 

La ricordo scivolare su di me, scendere come sipario della notte cupa.

 

È l’urlo di una giovane fanciulla, coi capelli persi in una ragnatela di foglie, magari intinte di sangue.

E l’aria è fredda, un fragile ghermire d’anime come bestie tormentate, l’affondo di una lama su un corpo palpitante. Il freddo sa di ferro, rimembra nei suoi attimi gradevoli una spada baciata dal finire di una vita.

Hai capelli coloriti di rosso, la mia vestale, come vino accolto in un calice in offerta agli Dei.

Come il freddo, appagante…

Ma i tronchi, malati d’inesorabile vecchiaia, hanno rami protesi come braccia che invocano aiuto al cielo, dicono siano guglie di gotica maestà nascoste nel nostalgico sentore di un conforto, nascoste nell’afferrare un aiuto nell’avvenenza di un autunno omicida. Sarà forse una cortina di lana, il cantastorie che se la trae avanti al camino arso e consumato fra le sue stesse carni; vittima suicida, assiste al riverbero della sua storia fra il fuggente ondeggiare di una fiamma affilata.

“Vorrei sonarti una melodia.”

Un pentagramma richiama agli albori del mondo il suo segreto più taciuto, fiorito sulla terra umida di pioggia che mormora il canto della selva d’autunno. Mi chiami mistero, brezza d’incanto sfuggita fra le mani di strega?

Mi chiamavi amore, frutto avvizzito nell’aspettar amante perso nel suo sonno immortale?

Addenta la mela! Frutto di tentazione, nipote di un demone acido nel ghermire la sua impotente lussuria.

Allorché sei demone, padrona del tempo a sciogliere le briglie del mio cuore.

Hai gli occhi scalfiti nel tinteggiare un vento specchiato nel cielo, una scia che travalica il mondo.

Destreggi ancora il mio amore sfiorito?!

E un corvo smentisce il silenzio, tradisce l’incanto, posato su ramo di quercia che sporge da una torre di grigi mattoni, osserva spettacolo di arduo pallore. Divino.

Come osi ancora servirti delle mie mani?

Imbevi la mia piuma, il mio istinto, in inchiostro di nera e arcuata grafia, mi doni il fascinoso timore che la pergamena non rovini la storia, che il fuoco non divori la carta.

Ancora. Come se tutto stia per finire.

Ancora; perché quando mi stringi a te è un cuore solo, fuso nel suo accoppiarsi d’istante, ad esalare i suoi ultimi respiri. Come un amante che cieco chiede, pretende ma incapace di dare ti succhia anche il brandello più puro, torbida vittima di una passione che da’ e trascura l’anima ormai pasto del diavolo.

 Mi lasci, quasi con finta mestizia tracciata sul volto sornione. Forse per concederti un ballo fra le vesti di raso carminio, sola nella tua anima malata, fra i tuoi sogni innocenti. Forse per liberarti da catene troppo fragili, costruite sulla libertà di chi mostra grani del suo sapere. E io, son il prediletto custode del tuo ignoto?

 Sembri donarmi il desiderio di possedere la mia bocca, lasciva nel tuo desiderio d’infilare la tua lingua di serpe fra i miei denti serrati. Mi dici che so di bosco, che so di legna bruciata, come se spire di fumo nell’aria cantassero melodiose. Come se fossi un demone evanescente, le ali corvine hanno perso il piumaggio per strada, cancellando la macchia dei loro peccati.

È il risvolto d’una notte passata ad adorare una luna imbrunita. Quando un fascio indorato sorge sul traccio del limite d’orizzonte, è il segno del sole che albeggia nella volta d'alabastro.

Mondo sparisce, consumato nel vuoto di una nuova mattina.

 Allora mi lasci, è sento che con te se ne va anche l’ispirazione, la furia che ha carezzato placida o violenta la mia penna, il suo solco errante sulla fragile pergamena. È come la saudade di quel marinaio, che passa i mesi sul suo vascello senza riveder terra natia, che palpita segreta sotto il petto. Sarà forse l’impregnarsi d’aria salata sulle coste inargentate, o i tuoi occhi di ghiaccio come un iceberg lontano fra lande marittime di sorda bellezza: muta nello splendore che cheto sorvola la psiche.

Ribelle e fragile come una bandiera, il tuo volto scatta nel fremito di un addio, un lontano addio del suo uso improprio. E son conscio d’amare quello sguardo consunto nella tacita smania voluttuosa, avvolto nei tuoi molteplici saluti di divina musa. Perché sei come ambrosia offerta nei suoi pochi sorsi, per reclamare ancora di più l’afrodisiaco dolore di morire sul tuo corpo. Tu, che erri in una focosa bugia: come puoi essere quasi triste?! A malincuore lasci ciò che sei, anche tu svestita di bosco, anche tu consumata nell’offrirti a me. Che m’incolpi di essere Esbat: un sigillo di futili promesse, imboccando un petalo di rosa nel labbro per consacrarti, per affidarti alle mie mani di peccaminoso romanziere. Ma, ahimè, non son sicuro di saper trattare la tua fragile esistenza stretta tra le mie ossute dita.

Dimmi.

Ne sarò capace?

 

Una foglia tra le altre solca nel vento il tuo indelebile passaggio. Musa ispiratrice di menestrello, ispirazione volata come quel corvo acquattato nell'ombra. Sibilla che prega sulle arterie sfinite di quella foglia, ormai giunta all’orizzonte del nostro amore.