Non vi dico niente, leggete e basta. A giovedì col primo capitolo!
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Prologo.
Lettera I. – 21 settembre 1892. Luna della Vendemmia.
23:00 h.
“Addentami”. Grida una voce.
La ricordo scivolare su di me, scendere come sipario della notte cupa.
È l’urlo di una giovane fanciulla, coi capelli persi in una ragnatela di foglie, magari intinte di sangue.
E l’aria è fredda, un fragile ghermire d’anime come bestie tormentate, l’affondo di una lama su un corpo palpitante. Il freddo sa di ferro, rimembra nei suoi attimi gradevoli una spada baciata dal finire di una vita.
Hai capelli coloriti di rosso, la mia vestale, come vino accolto in un calice in offerta agli Dei.
Come il freddo, appagante…
Ma i tronchi, malati d’inesorabile vecchiaia, hanno rami protesi come braccia che invocano aiuto al cielo, dicono siano guglie di gotica maestà nascoste nel nostalgico sentore di un conforto, nascoste nell’afferrare un aiuto nell’avvenenza di un autunno omicida. Sarà forse una cortina di lana, il cantastorie che se la trae avanti al camino arso e consumato fra le sue stesse carni; vittima suicida, assiste al riverbero della sua storia fra il fuggente ondeggiare di una fiamma affilata.
“Vorrei sonarti una melodia.”
Un pentagramma richiama agli albori del mondo il suo segreto più taciuto, fiorito sulla terra umida di pioggia che mormora il canto della selva d’autunno. Mi chiami mistero, brezza d’incanto sfuggita fra le mani di strega?
Mi chiamavi amore, frutto avvizzito nell’aspettar amante perso nel suo sonno immortale?
Addenta la mela! Frutto di tentazione, nipote di un demone acido nel ghermire la sua impotente lussuria.
Allorché sei demone, padrona del tempo a sciogliere le briglie del mio cuore.
Hai gli occhi scalfiti nel tinteggiare un vento specchiato nel cielo, una scia che travalica il mondo.
Destreggi ancora il mio amore sfiorito?!
E un corvo smentisce il silenzio, tradisce l’incanto, posato su ramo di quercia che sporge da una torre di grigi mattoni, osserva spettacolo di arduo pallore. Divino.
Come osi ancora servirti delle mie mani?
Imbevi la mia piuma, il mio istinto, in inchiostro di nera e arcuata grafia, mi doni il fascinoso timore che la pergamena non rovini la storia, che il fuoco non divori la carta.
Ancora. Come se tutto stia per finire.
Ancora; perché quando mi stringi a te è un cuore solo, fuso nel suo accoppiarsi d’istante, ad esalare i suoi ultimi respiri. Come un amante che cieco chiede, pretende ma incapace di dare ti succhia anche il brandello più puro, torbida vittima di una passione che da’ e trascura l’anima ormai pasto del diavolo.
Mi lasci, quasi con finta mestizia tracciata sul volto sornione. Forse per concederti un ballo fra le vesti di raso carminio, sola nella tua anima malata, fra i tuoi sogni innocenti. Forse per liberarti da catene troppo fragili, costruite sulla libertà di chi mostra grani del suo sapere. E io, son il prediletto custode del tuo ignoto?
Sembri donarmi il desiderio di possedere la mia bocca, lasciva nel tuo desiderio d’infilare la tua lingua di serpe fra i miei denti serrati. Mi dici che so di bosco, che so di legna bruciata, come se spire di fumo nell’aria cantassero melodiose. Come se fossi un demone evanescente, le ali corvine hanno perso il piumaggio per strada, cancellando la macchia dei loro peccati.
È il risvolto d’una notte passata ad adorare una luna imbrunita. Quando un fascio indorato sorge sul traccio del limite d’orizzonte, è il segno del sole che albeggia nella volta d'alabastro.
Mondo sparisce, consumato nel vuoto di una nuova mattina.
Allora mi lasci, è sento che con te se ne va anche l’ispirazione, la furia che ha carezzato placida o violenta la mia penna, il suo solco errante sulla fragile pergamena. È come la saudade di quel marinaio, che passa i mesi sul suo vascello senza riveder terra natia, che palpita segreta sotto il petto. Sarà forse l’impregnarsi d’aria salata sulle coste inargentate, o i tuoi occhi di ghiaccio come un iceberg lontano fra lande marittime di sorda bellezza: muta nello splendore che cheto sorvola la psiche.
Ribelle e fragile come una bandiera, il tuo volto scatta nel fremito di un addio, un lontano addio del suo uso improprio. E son conscio d’amare quello sguardo consunto nella tacita smania voluttuosa, avvolto nei tuoi molteplici saluti di divina musa. Perché sei come ambrosia offerta nei suoi pochi sorsi, per reclamare ancora di più l’afrodisiaco dolore di morire sul tuo corpo. Tu, che erri in una focosa bugia: come puoi essere quasi triste?! A malincuore lasci ciò che sei, anche tu svestita di bosco, anche tu consumata nell’offrirti a me. Che m’incolpi di essere Esbat: un sigillo di futili promesse, imboccando un petalo di rosa nel labbro per consacrarti, per affidarti alle mie mani di peccaminoso romanziere. Ma, ahimè, non son sicuro di saper trattare la tua fragile esistenza stretta tra le mie ossute dita.
Dimmi.
Ne sarò capace?
Una foglia tra le altre solca nel vento il tuo indelebile passaggio. Musa ispiratrice di menestrello, ispirazione volata come quel corvo acquattato nell'ombra. Sibilla che prega sulle arterie sfinite di quella foglia, ormai giunta all’orizzonte del nostro amore.
adoro tutto ciò che è poesia quando ho iniziato a leggere romeo e giulietta di W.Shakespeare mi ha emozionato sempre di più e una volta terminato non volevo leggere altro perchè ero convinta...e forse lo sono ancora che non ci fosse nulla di più bello che leggere giulietta e romeo.... rileggendolo e rileggendolo mi sono poi accorta che lo avevo letto con superficialità perchè mi sono accorta che all'interno di un solo racconto o anche in un piccolo frammento di testo di Shakespeare vi è poesia, ci si accorge che solo in un paiio di parole è presente un messaggio profondo...e ciò si ripete in tutte la pagine...nemmeno una riga scritta da Shakespeare è banale...
RispondiElimina"Occhi, guardatela per l'ultima volta...
Braccia, questo sarà l'ultimo abbraccio...
e labbra, voi che siete le porte del respiro sugellate questo patto d'amore con un puro bacio...."
-romeo e giulietta-
Grazie William....