Domani finirò il template che sto costruendo. Con calma domani cambierò le date alle lettere, così che coincidano con la veritiera velocità dei cavalli. Metterò gli appositi link, e tutto insomma. Ma domani, e posso aspettare.
26/02/1823
La finestra cigola. La candela fraseggia nel suo tremante abbraccio. Nastri ocra screziati sulle pareti di questo pallido inferno. Davvero, potreste capirmi? È opprimente, le lacrime di vetro che ricadono in acide spire sul mio volto mi corrodono le gote, arrossate dal mesto e melodioso flautare basso dello scuro, che ahimè, subito, ora, incrina la volta celeste.
E si tinge d’immenso, la notte. Una vena contorta frange il cielo in miriadi di diamanti fasulli, ricordi soffiati dal vento, si gioca a biglie sul terreno arido e febbrile di questo lutto.
M’avvicino. Ha il volto infiammato da ciocche che increspano come carta straccia la sua fronte. Ho appoggiato le mie labbra, anni orsono dal distacco del mio respiro a quest’anima pia. Il guanciale la stringe, è una morsa fatale, insipida. La donzella non è altro che la metamorfosi, il feto intricato nel suo pensare, così assorta… svegliati, mia bella.
Un bacio. Tutto quello che desideri?
Un altro passo. Un altro grido.
«Chiudete la finestra!»
Un altro silenzio. Un altro. Un altro.
Capocchie nere che appassiscono nelle braci di queste lanterne. Fiori, ancora fiori. L’odore inebria d’alcol, cognac, acquavite, fragole e ciliegie raccolte in grembo. E d’un tratto la vedo, la mano che si cinge a me e mi trasporta verso i lidi d’un passato… picchiettato di mari, nevi che scendono. Oh, mia dolce Provenza. Le lavande in fasci sbocciano come sogni nell’azzurro del cielo che sfuma le sue nuvole come creste spumate, amorosa morte di sirene alla deriva. Camminiamoci ancora, oh madre, tra questi signori d’ametista schiariti che accordano il mio cuore al vostro, e d’un tratto sono assieme, note all’inverso tratteggiate nel vostro sorriso.
«Ti voglio bene.»
«Anche io.»
Strinsi il lembo delle sue vesti e ridetti. Gaio come un angelo caduto, beato della sua ribellione a Dio, logorato dalla fiamma felice che vi vibra in corpo. Oh, madre, lacrime amare al melanconico ricordo.
La trascinai per una mano, il polso così seccato ai vostri sbuffi, tutti da convincere, fasulli come l’illusione del vostro riposo mortale. Tra l’altre dita lasciai correre i fili candidi fioriti dell’aquilone, ricamato coll’amor vostro. Oh, lo vedete? Vola alto, verso voi, lascia che le vostre mani s’appiglino stanche come ultimo doloso riscatto a questa vita, e poi rifugge vigliacco, lasciandovi sull’orlo stroncato del purgatorio. Ma meritereste solo il paradiso.
Farò il pianista, vi dissi un giorno, madre. Vostro era il picchiettare ferrato e algido, saporoso di siero, che ascoltavo ozioso nell’altre stanze, sull’altre carte sudate dello studio mio, frammisto al mio cupo ansimare interrotto dall’incanto da voi tessuto. M’alzavo, allora, inseguivo la scia del vostro suono nelle dimore che ho lasciato. I miei occhi vagavano sul vostro divorare le note ammansite, un diesis dall’innalzare solenne il suo imperioso comando, un bemolle dall’acquietare il mio animo. V’amo, madre. Ora è il per sempre.
Studiai piano sotto la vostra veduta. Sulle stringhe di quell’inchiostro, tuttavia, vi dissi, farò lo scrittore.
Avrei bucato storie, vi raccomandai, con lo stesso solerte tono delle vostre dita. E sarebbe stato fatto con la sacrale impronta dell’animo vostro.
Sparisco, vi dissi, un giorno. Ritornerò, l’altro.
Tagliai quel filo d’Arianna come l’estirpare un fiore di lavanda dalla terra. M’aggrappo al peccato mio come le nuvole sopra il cielo di Fiandra.
È ora, v’è morta? Su questo capezzale sfiorito giace la rosa scarnificata da Dio.
E che la paghi, tra le spire di quest’incendio sfiorirò anch’io, vorrà dire. Mi ritroverete, tutti, che sarò solo il silenzio bruciato da queste lacrime. Mi vedrete, tutti, sparire come la donna immacolata nella crisalide del ricordo, su questo letto.
Oh, vi racconterò la mia infanzia, monna musa. Un giorno o l’altro. Forse mai.
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