06/03/1823
Londra, Casa Hinchinghooke.
La tela s’incava sotto le sue mani sottili. Il corpo di una donna, apoteosi di piacere che rifugge dall’armonia fatale, la matita che consuma la sua grafite nei tratti grossolani e imprecisi delle sue fragili dita. Il tramonto tinge d’oro le fibre tessute, così delicato che pare quasi mortificare il suo animo con la fuggevole bellezza dei suoi nastri. Passati lì per caso a condurlo in una scia di docile piacere.
Vi amo. In ogni secondo. Ascolto l’organo che abortisce voi nell’accordo di rimembrarvi sempre. Prima o poi.
Un movimento più in basso, strascicando le forme di un braccio, i pizzi e i merletti affinati dal filare una mano. Fasci di lavande a ricoprire il tutto, un universo frammentato, una marea ritratta nell’odoroso ricordo. È così forte che quasi infastidisce: l’alcol che permea forte e stilla di dolore acidi tagli. Le lavande hanno l’odore di fiori blu in un campo deserto. Hanno odore d’oceano, di quello forte, del sale che corrode la stessa tela, fino a sfinirlo nelle lacrime che cascano in frantumi d’infanzia.
Si vede appassire, sfiorire greve, sulle gambe petali seccati, strappati crudelmente alle rose ch’aveva donato alla madre al suo arrivo. Poi sospira. La matita gli sfugge quasi, ma stringe di nuovo, deciso. Si sente burattinaio, costruttore del miraggio, artefice di una composizione incisa a parole, e visioni sussurrate nell’inseguirete il distacco.
Un sibilo fioco più in fondo, asciutto, gli annunzia che la matita ricade al suolo, nello scoccare, all’unisono, del suo cuore.
Mani. Mani. Ancora mani. Mani che si allentano, come un affresco decadente, separati da una crepa che apre uno squarcio inafferrabile. Un vuoto marginale. Il vuoto in cui ricade, straziato come i suoi sogni, amori affacciati da un oceano di carta.
Non era mai stato un bravo pittore. Ci aveva provato, talvolta, suo malgrado bozze increspate e sporche, stracciate delle proprie mani, abituate forse all’inseguire l’inchiostro, che ad altro.
Il ribollire ridente dell’acqua, il pennello che vaga nella frescura del barattolo di fragili vetri incrinati.
Veloce. Il chiaroscuro sulle ombre delle mani, il respiro trattenuto un attimo prima di scoppiare. Li ha dipinti. Apparsi misticamente come anelli su un fondale ingrigito.
Il violetto, la punta d’ametiste fuso, così fluido a puntellare gli steli. Indorato è l’orizzonte in cui si spiega il fragile volare della sera, su ali arrossate d’imbarazzo.
Mancherebbe solo il piano, si dice. La melodia che l’accompagna algido nell’altalena di soni, frammisti e fragili, il cantilenare d’inaudite sirene.
Sirene, vi prendo e vi porto via. L’inganno della bugia che serbate in seno, siero invischiato al petrolio più oscuro, vanifica ogni vostro respiro.
Madre, sapete del ricadere di gocce in un pozzo profondo.
Una scia rossa gli imporpora le gote di lui bambino. Screzia gli occhi in un temperamento che sa di cioccolata, mista a lacrime di cannella. Ha il volto sporco di terra.
Piange.
Poi una danza più oscura, più dolce, l’infinito, il tremore del cuore afferrato d’altre mani…
Lei profuma di crisantemi, invece. Ha petali che sono ciglia, lunghe, sottili filamenti di violino, sbocciate nel rigoglioso silenzio che vi cresce dentro. L’intimità odorosa di lapidi e petali fusi nell’essenza del suo respiro.
Vinci sono Lorena...ma dimmi..sei tu che scrivi queste cose?O le prendi dai tuoi libri? ^^
RispondiElimina