domenica 23 gennaio 2011

I Can Wait Forever, Interludio IV

Lo so che conoscere la storia a spezzoni, saltando da un blog all’altro, è un po’ scomodo. Vi chiedo solo d’avere pazienza. Procediamo veloci, e in ogni caso potete sempre ricorrere alla pagina creata apposta per fare meno confusione possibile ;)

_PIANO__by_bittersweetvenom

Sfiora il corteo, bianco, una crisalide di lapidi spezzate e poi subito nere. La scia del suo dito, l’unghia tonda, che scivola fluida in una scala gentile, le fa crescere brividi di solitudine in seno.

La tentazione a cui sta per cedere il suo amato è languida, mortale. Ha paura che quelle dita, come filamenti spinati, ricadano in cenere nell’alternanza del campo santo nella quale, ora – per sempre – incide il suo tono. Più in alto, imperioso, come un mare di vetro in frantumi.

La stanza è un locale oblungo, illuminato dalle luce di un camino che arde nel rossore delle sue braci e combatte la notte, una fiamma s’infila come un’ombra lungo la parete e crea un ramo frastagliato, un teatrino di luci e tenebre circonfondono il tutto. Un pianoforte, un uomo su uno sgabello, una donna oltre la coltre di legno scurito, in fronte all’amore impersonato.

«In principio ci furono due mani. Odorose d’inchiostro che s’amavano in un intrecciarsi perpetuo, profilate lungo una penombra interminabile. Un’assenza, un’angoscia che premeva nel petto dei due. Si contesero, appena, per sempre. Combatterono a rose rosse e talvolta dal nero gentile, asservite con rovi che stillarono sangue puro. Poi nacqui e sfilarono cinque anni senza accorgermene, intrisi nei miei occhi di bambino. Da Le Havre, la vergine neve imbiancava i loro animi insanguinati d’amore, scappammo a Vaucluse, Valensole. E là, le lavande imperversavano in un oceano di ametiste, acute, rozze, accoglienti come le mani dei miei genitori.»

Scomposta, il suo respiro ansante le percuote il petto, ansiosa. Pretende. Sta seduta in una poltrona, ricamata con rami neri e foglie di primavera beccate da passerotti infatuati. Sta in fronte a lui e lo guarda negli occhi.

«La conobbi che era appena cominciata l’estate, in uno di quei giorni in cui s’attendeva oziosi lo sboccio delle lavande, così frementi d’avere in corpo il profumo screziato di quei fiori, in cascate di gemme dal proprio stelo. La conobbi che di nascosto m’ero inoltrato in un campo violetto, i fiori trattenuti ancora a sé, alcuni prematuri reclamavano la loro morte per sfuggire all’astiosa vita solitaria, in attesa dei loro fratelli. Ne raccolsi una, la spiga più bella, piegato, con gli occhi accesi di stupore.»

La musica intorno a loro, quelle note che salgono al cielo e ricadono meste, s’accorda perfetta, richiudendo porte d’inferni e paradisi al loro passaggio, alla voce narrante che novella un’immagine e ne interpreta un’altra.

«M’ero piegato, le dita strette intorno al verde del gambo, premevo con forza perché venisse via. Il tatto, scottante, invasivo e distorto d’altra pelle, che sfilava dal terreno la pianta novizia. Ci ritrovammo instabili, la spiga violetta stretta nelle sue mani. Nel trionfo di due volti. Uno solo.» Lei lo guarda, la sua pupilla dilatata trattiene nell’intenso il buio, distoglie per un istante lo sguardo.

«Le disgrazie, Eva, sono ghiacciate. L’amore però s’accende del rossore soffuso, placato, dei suoi capelli. Lei, impacciata, le mani in grembo, lasciò la lavanda a me, e s’allontanò d’imbarazzo dipinta sull’esanime pelle.»

Byron cessa la fugace melodia. Le candele brucianti ai muri indorano i contorni del pianoforte come filigrana di sole ad accendere picchi d’intimità.

«Per poco non scappò. Oramai ammaliato, corsi dietro al suo fuggire, lo strascico della bianca veste che le copriva le gambe in una corolla di giglio, rialzato tra le mani. Era lacera, povera, sporca. Timida come la farfalla che si posa sul suo primo fiore.»

«Sai, mio Byron, ho un inconsueta passione per i tuoi racconti. Sono bestiole ammansite dalle tue sillabe, sussurrate col dolcezza, intrinseche di melanconia; accendono fuochi di gelosia in me. Continua, oh mio Byron, pure per sempre.»

«La trascinai a casa, corremmo come due fiori estirpati dallo stesso stelo, mano nella mano, e pian piano calava la sera.»

Evangeline esitante, chiede, il farfugliare delle sue mani a mezz’aria è il giogo di un linguaggio profondo, taciuto.

«E fu tua?» Lui affranca un dito alle labbra schiuse, lascia che il monito plachi tutto, cali il sipario di un intoccabile silenzio.

«Mio padre la raccolse in casa, mia madre l’occhieggiò come un gatto randagio, e lei odiava i gatti che d’estate sgusciavano nel verone passeggiando.» Stacca il dito dalle labbra, semoventi, il monito spezzato, le dita che scompaiono sulla tastiera del pianoforte.

«Non aveva famiglia, lei era il reietto a cui tanto aspiravo, il fascinoso terrore che mi incastrava nella trama intessuta. Mi amava, o faceva finta.»

«E basta? Solo questo?» Pensierosa, le palpebre che si socchiudono in una foga, la smania di un bacio, mosaico di ciglia.

«Era il mio segreto più turgido, il rampollo di un fiore d’oro che splendeva ai tramonti di baci, le lavande sotto i nostri piedi intralciavano il passo. Che amore, quel profumo, la fragranza di toni assaporava il bacio. E fu il mio primo bacio, l’inimitabile.» Si blocca, la musica attorno si riaccende con un botto basso. Le mani avevano sbattuto con forza contro i tasti, poi di nuovo silenzio. «Oh, Evangeline, l’emozione che trasudate è un concetto d’invidia pura, non vogliatemene. È una parte importante. È d’infanzia.»

«Non curartene, Byron, è solo il mio cuore che piange a tradimento. Avrei voluto esser io quel papavero appena colto e curato con tanta passione. Quando l’hai baciata, che sapore ebbe?»

«Un sapore diverso. Ha sapore? Tutto ciò che è tensione allo spasimo, ha tutt’altro sapore. È lo sbocciare di un mondo silente, dove le timide roselline crescono sottosopra e sopravvivono alimentandosi di brividi contrastanti. Perché con lei, c’era una soglia focosa in cui sprofondavo lieto e incauto e spiragli di brina che stoccavano ai fianchi.»

«Qual era, il suo nome?»

«Katherine.» E mentre lo dice, contrae la faccia in un espressione dolosa.

E poi s’alzano, statuine affusolate che vagano sul palco di un carillon stonato.

Riprenderai, mio Byron, perché nell’altra parte, son sicura, il soleggiare del giorno mi aiuterà a non averne paura.

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