07/03/1823 – Interludio
Londra, Giardino di Casa Hinchinghooke.
«Byron! Rose, rose rosse! Rose fiorite, rosse come il filo che m’hai legato al polso.»
Evangeline alza il volto, pallido, quasi mascherato di porcellana, la crocchia di filamenti screziati di cannella, cioccolato al latte, fuso nell’assecondare il denso mormorare dell’animo.
Byron accorre, nel vialetto incorniciato da verdi cespugli, peonie rosate sono sporte come pettegole indiscrete, premature, ingenue. I suoi passi sono pacati, cheti, imprimono vestigia sulla terra smossa, come petali di rose corrose.
Nel cielo, i banchi di nuvole londinesi sono canarini da trattenere tra le stecche di ferro di una voliera, si ha paura che possano increspare le ali verso lacrime che ingrigirebbero il soleggiato meriggio ch’ora si godono.
Le betulle si librano accanto, affrancate da braccia più alte, confuse, ramate e schiarite di un verde che s’accende e s’arriccia.
Lei è in fondo, china tra petali come pizzi arrossati dal sangue, la veste di raso magenta la costringe in una statua dal profilo incerto, quasi si contenga a stento nella gabbia posta. Ora s’alza, lieve, le ciocche che le ricoprono il volto, le scosta con un gesto delle dita. Mentre Byron le gira dietro, lento, il cuore che gli batte in petto, un palpitare simile alle onde frante, le cinge la vita. Lei s’infiamma in volto, le guance cosparse di quella tinta apparsa in sprazzi a intrecciare un piacere scabro. Sente il corpo dell’amato, quel petto premerle contro la schiena, freme. Fremono tutt’e due. Vibrano al cospetto della loro felicità. Questa è l’ouverture di una sinfonia dal timbro talmente basso da strisciare in terra.
Byron abbassa il capo posando il volto nell’incavo tra il collo e la spalla sinistra della sua dama. Le prime note che s’accendono del profumo di fiori gelati.
«Rosse come il demonio. Come i suoi capelli che fuggirono in una scia devastante. Attenta a strattonarlo; mi portò via, per certi versi, staccando a forza l’essenza di un amore straziato.»
* * *
Il distacco dei loro respiri, le mani sciolte dal casto nodo che dapprima s’era creato, il sentiero di riccioli d’erba che affiorano dal terreno, li accompagna distendendo la terra in piccole dune. I loro piedi che tratteggiano il sentiero verso casa.
«Lei viveva in me e io in lei. Un essere decomposto, disfatto, l’embrione che si serviva di me, la scintilla dell’incendio. D’un tratto la vidi, la vampa che allungava le sue lingue, colate mai fredde, lungo l’apoteosi del nostro amore. Oh, Eva, l’amore è servitù, nevvero?»
Lei deglutisce, socchiude gli occhi, le labbra dischiuse, appagata e affranta dalle parole di Byron.
«Erano quindici, gli anni che aveva, seguivo la sua ombra per casa. Timida e fragile, furba, artefatta. Mi mise un dito sulle labbra, il monito di un silenzio oscuro. Aveva progettato tutto. Mi aveva messo fili immaginari in una schiena e li aveva trascinati. Mi sono sempre chiesto cosa sia ciò che l’abbia spinta a fare tutto… questo. Perché i cocci della sua infanzia distrutta invasero anche la mia.»
«L’imbroglio, giusto. È come dipingere un quadro difficile, la punta che si spezza, il pennello che sbava. È arte l’inganno di mascherare il tutto.» Evangeline alza le ciglia schiarite, di fulgido grano, e pare quasi voler sfiorare il cielo, con gli occhi, le dita, che rotea in su per cogliere quel raggio di sole che s’insinua come un silenzio sepolto e riemerso.
«Katherine aveva bisogno di me, me lo aveva scritto. Impossibile negare che m’aveva avvisato. Le sottili lettere sulle mura della soffitta, tracciate col dito sporco d’inchiostro, tondeggiavano. Non stavano mai ferme. Quel reclamare a me, un grido strozzato che parte dall’oltretomba e non giunge in vita. Ho bisogno di te, sei tutto, sei l’ordito in cui inseguo i miei sogni, mi diceva. Era il cartello di polvere, una cancellata impercettibile che sotto la mia presa, prima o poi, si sarebbe spezzata.»
«Ma dimmi, cosa è successo veramente?» Lui le rivolge uno sguardo intenso, gli occhi di lei colmi delle increspature del ghiaccio, di un amore di vetro incrinato. Un acchiappasogni dalle tinte riprese a guardare specchi di mare riversi, un fondale che proietta i propri sogni in lustrini dorati che s’interpongono all’acquamarina infinita.
«Disse che mio padre… tradiva mia madre. L’aveva visto con un’altra donna, l’intreccio d’altre vesti, il profumo d’altre carni. Era qualcosa di doloroso, mi fidavo di Katherine. Era come camminare su un filo sospeso sopra l’oblio del terrore, avrei voluto chiudere gli occhi, ma l’attrazione verso ciò che reclamava il mio essere dabbasso, era troppo forte. Sai, il filo si fa sempre più sdrucito mano a mano, lungo il cammino, fino a quando non c’è più nulla. È una sciocchezza superare il vuoto, camminarvi sopra, viverci, alla fine la caduta è inevitabile.» Ride. E si sente cadere, le ciocche dorate che gli ricoprono la fronte tersa da goccioline di sudore, che nascono dall’interno, paiono avvizzire, spegnere le loro tinte accese.
«A quei tempi, mio padre era il riflesso distorto di mia madre. Era lui che aveva assecondato l’accoglienza di Katherine nella nostra famiglia. Mi sentivo trafitto, trafitto in controluce. Lei, lui; lei che mi diceva: chi ha i capelli rossi porta solo male in famiglia, lui che osservava le note scorrere dalle labbra aperte di Katherine, sciogliere tutti i nodi intricati nel cuore e farsi beffe di noi.»
«Cantava, Katy, allora, era lei la tua vera musa.» Lei cerca le sue dita lunghe, le trova, le stringe, assapora il gelo raccolto in quella pelle, si propaga in una malinconia immensa.
«Lo fu per tanto tempo. Lo fu di tutti, tuttavia mia madre non restava ammaliata e non ne ho mai capito il perché. Mio padre pagava le lezioni di canto, potevamo permettercele, sì, ma era sempre un costo che gravava su un componente della famiglia indesiderato da…»
Madre. Tutto questo vuoi dire. Quanti sono i petali di margherita rimasti? Li hai donati tutti ad altre donne, per me, cosa offri per me?
«Byron, cosa fece Katherine?»
«Mi ha ingannato, mentre l’alcol corrodeva mio padre che tornava a casa a sera attardata, mentre mia madre guardava afflitta disfarsi tutto. Piansi anche io. L’ultimo limbo a cui si stringevano le mie mani diventava un brandello caduto nel vuoto. Ero convinto che amava un’altra, Katherine aveva detto così, sapendo quanto tenevo alla felicità di mio padre. Qual era la verità? Evangeline, la vuoi davvero?»
L’istante, il secondo, l’ora, perfetta in cui il cuore disperde il suo acido. Lei annuisce mentre Byron sbarra gli occhi, intrattenendo tutto il timore a galla.
«Katherine voleva andarsene dalla famiglia. Katherine non voleva me, voleva solo i soldi, un’eredità che spillava dalle attenzioni di mio padre, a poco a poco, goccia a goccia fino a riempire un vaso. E ora lo vedi, il vaso, trabocca, in frantumi di ceramica. Mentre la verità era solo un uomo deluso dalla morte del fratello caro. Ma nell’inganno che Katherine mi aveva tessuto addosso, dovevo difendere mio padre e porre fine ai suoi pianti. E lo vuoi il finale, Evangeline, lo vuoi davvero?»
Un sospiro. Non v’è bisogno che legga il suo volto per scoprire la risposta.
«Ho ucciso mio padre.»
Si sente una macchia d’inchiostro. Isolata. Stacca la mano da Evangeline, la guarda negli occhi disperso, ferito, il viso sfregiato in una smorfia di sconforto che per poco non si trasforma in pianto. Ma lui è forte, non può piangere, anche se il rimorso lo è di più. E poi le macchie d’inchiostro sono già un immensa lacrima partorita da uno scrittore distratto.
Nessun commento:
Posta un commento