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19/02/1823 – Terza lettera alla mia amata.
Le Havre.
Vi scrivo sopra i banchi di una stanza abitata da ricordi troppo densi, si fanno strada, vibrano come echi negli anditi bui di questo palazzo, ove ora ricucio la mia infanzia. Sono nato qua, vi ricordate? Rammentate di quell’estate quand’io vi conobbi? Era sera, e il vento laminava ogni stanza, le luci delle lanterne ch’ora sporgono da questi muri illuminavano il vostro volto, così ambrato, delizioso, miele funesto, insito del veleno più dolce.
Rimembrate le ore gentili in cui la vostra mano scorreva sulla tela ora vuota, ora colma dai tratteggi di esili pennelli, i volti che prendevano vita nelle tinte decise che incidevate con grazia propria, e si affinavano lungo gli orizzonti che ponevate, cesellati tramonti che… Le mie dita s’aprono lungo l’aria, sento lo scoccare del vostro cuore, il pennello impietrito nella mano vostra destra, richiudo con fermezza il pugno dei miei brividi al vostro polso, il pennello che casca giù, quel lieve sibilare che sfuma nell’ombra delle vostre labbra volte alle mie e in quell’attimo, un frantume di silenzio sceso in mezzo, i cocci si ricompongono nello scorrere dell’elisir di lunga vita. La porta s’apre.
Un vostro bacio, tutto ciò che bramo.
Proprio in questa stanza, bruto scherzo del destino che mi distoglie dalle parole.
In questi quadri incorniciati da trafori d’oro, leggo quasi il distacco che v’ho sempre posto, quello che v’è dall’oro alla tela, il passepartout, un lenzuolo candido in cui vi trattengo. Per farvi sentire unica regnante del mio corpo. Questo porgervi lontana, questo voi che v’incava nella crisalide di cristallo che ho cercato di costruirvi attorno, invano.
È normale, penso, che questo filo s’allunghi sempre più. È normale che prima o poi sarà crudelmente reciso.
In serata ho fatto una camminata nei dintorni. L’aria tagliente e la neve che insiste s’era placata, e la patina a ricoprire il tutto, dolcemente, ha reso una piacevole passeggiata nella quiete di questi anni. Si respira un’aria stabile, un’armonia dei sensi che quasi mi trasferirei qui. Sapete, vi ho comprato una tavoletta di cioccolato, quello che voi amate, alla cannella. Lo divoravamo assieme di nascosto, rubato dalle riserve in cucina. L’ho avvolto in una carta che scricchiolante era dir poco, crepitava, rossa, come il fuoco del mio cuore, come quella vampa che è finita per ardere anche voi. Ho messo il nastro, come il broncio, l’ira inestricabile che so abbiate in volto quest’ora e non saprete mai perdonarmi.
Ora, la tormenta si è risvegliata. Vi devo lasciare, quasi le mie dita non riescono a staccarsi dal pennino impregnato dall’odoroso inchiostro di cui è amante, e scenderò giù nella tavolata di questi miei parenti, già immagino le candele che bruciano come il nostro amore, da troppo tempo cristallizzato nelle lacrime dei dorsi e, oh, mai consumato.
Domani sarà la volta di partire. Non vedo l’ora che quest’inferno finisca per riavere le vostre mani, labbra, il vostro corpo.
Ritornerò. È una promessa.
Non vi muoviate. È un ordine.
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