Per Halloween, non ho avuto un’ispirazione così forte da indurmi a scriverne un racconto a tema. Sarà che il macabro stona col delizioso sangue di lussuria. Sarà che per un po’ di tempo non voglio parlarne, di sangue e morti. Anche perché ho finito il quarto capitolo, vi devo far ancor leggere il terzo, e il senso di morte e il sangue s’è disperso là. Consumato. Sarà che devo ringraziare Braldbury, per il suo racconto sull’adolescenza. Ah, se non l’avessi letto ciò che leggerete non ci starebbe qua sotto. Infine il titolo si rifà a una poesia scritta e postata tempo fa. Quando parlavo di due papaveri che stavano attenti a non uccidersi, perchè cercando di baciarsi rischiavano di perdere i petali. Qua c’è il fatto che forse se ci si è uccisi, scoppiati, l’amore suona meglio.
Quindi, buona lettura e buon tutti i Santi.
* * *
Dabbasso vedo Venere macchiata di sangue. Il sorriso s’allarga sul volto, una bramosia smaniosa arde di baci sulle labbra carminio. I capelli imperlati ne orientano il desiderio non più smorzato, ma riflesso nel suo assecondarlo. Forte, potente, intrecciato fra filamenti vermigli.
Si tocca i capezzoli, di nascosto, dai seni sporti con infinita dolcezza.
Dall’altro vedo Lachesi, col fuso che gira, vortica, furioso. Ed è proprio quella furia che m’agguanta nell’interseco di lingue di lava che insidiano il mio cuore. Scottano, bruciano tra loro, si stringono le mani sull’altare di lame infuocate. Partecipano al sacrificio d’inebriante piacere che infiamma la gola, gli arti ghiacciati in un ossimoro che diventa amore, – mentre tra le sue spoglie.
Un altro giro. Furente. Il fuso vomita un clangore d’anime dai volti sfigurati. I fili tesi, sono rossi nello sbocciare, nello sfregiare l’apoteosi, raspandola felici. Ed è proprio mentre scoppiettano, nessuno soffia. Ma s’avvina, colei che ne recide il destino.
La vedo, pare vestita di spuma di mare, coi pizzi che ne sfumano il candore fra l’innocenza eterea in cui s’avvolge. È bugiarda, come la luna. Tante facce. Atropo ostenta i suoi occhi d’algido ghiaccio, la mano unghiuta, rimaste imbiancate d’alabastro, crepa le pupille, scandisce i fiori del male che di rosso s’infiorano a tinteggiarne il capo, ora aggraziato. Tenta, tende, storna e pretende. Ed infine, quando richiude il palmo tutto sfiorisce.
Con crudeltà disumana, Atropo lacera il filo che più rigurgita la sua lava sbavata. E le unghia si macchiano di peccato che tanto rammenta colore di vini imbottigliati in un tardo autunno. Tra le sue esili dita, il filone non smorza la sua bellezza, bensì deflagra invadendo una bianca tela in uno schizzo di confusione.
E siamo sdraiati là. Sul prato che verde e rorido, si veste addosso profumo di terra appena bagnata; abbiamo le mani che affondano in essa e più ne scaviamo le profondità, più siamo contenti d’affondare le fosse del nostro amore. E c’è fango, sui nostri vestiti. Saliva corona le nostre labbra schiuse tra loro, si toccano come petali di papaveri, a cercare un appiglio che può fungere da dolce vascello dei sogni. Guardando i tuoi occhi, traghetto in un limbo d’assenza. Un limbo che d’intensità ammalia chi riesce a scandirne le carni, a cogliere l’essenza che vibra incostante e che corre a briglie sciolte; non si fa prendere mai.
Lingua nella lingua, s’avviticchia in una spada aulente di languida primavera. L’imbarazzo s’aggruma come sangue sulle gote, ma c’è il sorriso – forse la traccia di una parvenza d’infinito – che si traccia nell’abisso e che trascina me… a riposare per quell’istante di inebriante piacere le mia labbra sulle sue. Uno schiocco, come un battito del cuore; un respiro. Le esalo la promessa di una vita.
Ci stringiamo le mani fino a che le nocche sbiancano, e ne ridiamo di questo, ma lo strascico di separarle s’è perso all’orizzonte dell’indomani. Fra i risi bruciati e i respiri anelati troppi in fretta da un cuore che batte e che vuole riscatto, siamo felici. Gracchiamo silenziosi ad assaporare il bacio, insipido, di un sole che scola alcol da i raggi pallidi posati sulle nostre vesti, sporcate dal fango, chiazzate dagli steli d’erba in cui abbiamo annegato i nostri cuori… ora fermentano. Chiudiamo gli occhi avvicinando le teste: La felicità… l’abbiamo uccisa? Mangeremo i suoi resti nella fossa quando il corteo funebre sarà sparito. E non saremo sazi. Mai.
Grido. Non respiro. Voltandomi a benedire la vita – e la morte - bendato. Sbatto le palpebre.
Dall’alto il cielo saluta, con la sua schiera d’arpie che occhieggiano da una nuvola; aggrappate con gli artigli ne lacerano le paste di cera. In fondo è solo il cielo, una volta di libertà che sfiora e poi subito rifugge da una perfezione che sa tanto di quel maledetto infinito. Ma sento che se alziamo il dito possiamo pure toccarlo.
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