sabato 5 marzo 2011

Hirondelle

Ritorno ^^.

Dopo tanto tempo, un nuovo racconto. Primo classificato a un contest e vincitore premio stile.

Buona lettura.

Vorrei ascoltarti ancora. Dimmelo, di nuovo, col cuore in gola. Su altri piani, ingialliti come macchioline d’immenso nell’ambra dei tuoi occhi, li scandisco a uno a uno tra le mie dita. Ogni singola lettera, tracce, sangue di sogni riversati sulle carte del nostro amore… ti prego, un’altra volta. L’ultima.

Eternamente tua.

È di una dolcezza infinita, come una sonata… una sviolinata in Antartide, col ghiaccio che ti frange il pensiero, che si specchia fra la spuma di mare. Un soffio, l’infinitesimale desiderio schiuso e raccolto. Mano di ragazza che lava i peccati. Sei, eternamente mia?

Stap! Ti ripongo come ultimo avamposto dei ricordi, tra la polvere. Esalo un sospiro, mi vedi? Io no. Sono giorni che sei partita e di te rimembro assieme solo calici di vinaccia che ora sono una bottiglia. Composta, l’ultima droga.

Richiudo la credenza, le mie dita scivolano tra le imposte, assaporano il vetro strappandone un velo di polvere. Mi giro, la stanza è trafitta da pulviscoli che perforano i tavoli e si screziano nei fasci di luce che entrano dalle vetrate. E poi lo sento! Lo sento il rombare del mare, focoso, irato con me stesso e il mio cuore. Distante anni luce, però ha pure le sirene. Magari in fondo all’oblio, ma le ha.

Mi avvicino a un tavolo. Abbozzo un sorriso di quelli che scolano malinconia come alcol puro ai margini delle labbra. Che beffarda la solitudine, una fiamma d’evanescenza che brucia tutto intorno a me. Un vaso di fiori nel mezzo delle rughe di legno distese. Camelie rosse. I petali si rincorrono battuti da uno sprazzo di vento, suadente. Mi avvicino, le sfioro col naso, il loro fulcro sboccia per cogliere ciò che ne è rimasto della miseria… un pugno di sabbia. Non hanno odore. Non l’hanno mai avuto. Ritorneresti, vero? Lo faresti solo se ti dicessi che queste camelie fossero l’essenza dei nostri baci. E che magari con un altro bacio profumerebbero del tuo respiro. Acquasanta e conchiglie macinate.

* * *

Corre. Ma dietro lei ancora il mondo ne serba il ricordo, ne imprime le vestigia. Passettini sull’oceano di sabbia. E lei rifugge dall’accogliente volta indorata, che la imprigiona dabbasso come cielo stellato da conchiglie. Scalza, assaggia anche l’arroventare della sua fuga. Una fuga che sa’ di lamponi infilati tra i denti dall’amante bastardo, seduti sulle balaustre dell’inferno a osservare l’oceano. Per sentirsi se stessi.

Una striscia di acqua le passa accanto, si disegna tracciando blu schiumato all’infinito. I piedi si bagnano, una brezza fresca che la incatena ancora alla terra. Una terra scossa dal fremito dell’anima della ragazza che, oh, casca lasciando il calco del suo passaggio. In balia delle onde, della memoria, sente la redenzione dall’oceano. E le dita che vorticano, verso il cielo, tra le rondini che s’incrociano e cascano al suolo in macchie d’inchiostro.

Proiettano una scritta. L’ultima, perché lei lo vuole. Lei lo sa.

Eternamente tua.

E poi fugge, di nuovo. Lasciando dietro i suoi passi spuma di mare e tracce d’inchiostro cristallizzate. Piume malate.

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