martedì 7 giugno 2011

Good Bye Lenin!

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Inizia così, ha un bell’attacco. Di quelli favoleggianti come le corde rotte delle nostre piccole arpe ai tuoi capelli.
E poi finisce – dentro un buco. Una fogna, una frase che lascia le tue piccole anime a metà, nel cardine d’incastro all’apice dei tuoi sogni stesi ad asciugare. Una cagata.
Questo posto ha solo noi.
Fa solitudine, la tua grafite tra i miei seni, e i sospiri che formano i draghi dei tuoi pensieri. Ho comprato foglie, le foglie per dirci che se le strappiamo non stiamo più insieme. Nascoste tra le pagine di un romanzo, di quelli che senti lo stormire delle frasi. Niente più parole, promettimelo.
– Prometto.
Che l’inchiostro ci trucidi.
I tuoi sistemi complicati non servivano mai a nulla. Solo che volare, quando le tue dita scivolano sulle mie stelle disperse su un ventre gravido di poesie dell’hard discount, lasciava tanti buchi tra i suoi gesti d’inchiostro.
L’oblò, l’oblò, non permettere ai bambini di entrare in contatto con l’oblò… com’era? Era così, erano le tue lune dirottate per i bazar, le lanterne di carta strappate per farti luce dentro la carne, per vedere se t’incendio c’è il tuo amore che m’indora i sogni.
Io non ci entro dentro l’oblò.
Mi fa schifo.
Le tue braccia, così lunghe, sembrano ritagliate dal cartoncino nero, le aurore immense che proiettavi come i segreti scritti sulla schiena… Sorry, I’m sorry. 
E le protendi, dai nostri buchi.
Per dirmi.
Che.
Se.
Le.
Sfioro.
Mancano.
Di.
Sospiri.
E.
Poi.
Il piccolo inverno dei tuoi battiti era l’inferno dei miei limiti, tra le nostre soglie, ci siamo accorti che le parole erano buchi troppo grandi per poter essere trattenuti. E che noi eravamo  parole. Due parole, verbi risultativi. I tuoi abbracci morfosillabici.

Com’era? Segno di uguale più quello di acqua. Il tuo nome.
Chiave d’oscurità.

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