A Zia Mad, che ha raccolto la legna bagnata, ne ha scaturito una scintilla che ha invaso la foresta, l'incendio è logico e sotto inteso che sia scoppiato.
Entro, l’aria asfissiante si ricolma di fumo, laddove i ghirigori si fanno più spessi c’è un vetro ad attenderli, forse per accoglierli.
Non piangere, su dai, c’è già qualcuno. Oltre il finestrino ci sono rivoli grigi, ticchettano stordendo, lontano qualche ombrello che rotea fra stecche di legno, una lacrima mi si disegna appena, il bravo pittore… quasi una brezza di saudade, mentre le donne sbattono assurdamente fazzoletti di batista, manco s’accorgono che è inutile assumersi le colpe d’un viaggio che non avrà ritorno.
Bastardi.
Bastardo.
Sono un bastardo. Vagabondo dei recessi mentali, psicopatico e demente a rosicare un filamento che sboccia in ortensia lilla laddove già la sua stagione s’è sciolta, e con lui anche l’ispirazione di un racconto lontano, se ne va via all’ombra di un calamaio mentre il pennino rotola nero, imbratta fogli in una risma presi dal vento, la finestra lasciata aperta. Magari qualcosa, una foglia, una carta da gioco o un tarocco fasullo, si concedesse alla mia mente, anche solo per illudermi di aver colto la giusta strada, che non sia quella di un treno che vaga, confinato dentro un mondo. La Siberia, signori miei, mi aspetta. Già la vedo, è una sigaretta fumata in fretta e furia da un artista di strada sconsolato con la sua chitarra nelle mani, uno spicciolo buttato nella bombetta, si raccolgono tutti insieme e si fanno compagnia. Tutti insieme, così pochi, un tozzo di pane, un’altra sigaretta, un pezzo di ghiaccio nella bocca.
La immagino. Mi è sempre parsa un cappotto bianco, una scorza d’arancia vaniglia, un figlio malato, qualcosa di diverso. Il mondo difettoso.
Ciò che mi serve è timido, quasi anch’esso si vergogni imperterrito. Non pretendo mica molto, una baita fra la coltre di pini canuti, gli occhi di un lupo piantati addosso, un monte sparuto in alto a darmi la sensazione d’impotenza, e sapete? Anche una bettola e un bicchiere di brandy, un calice di vetro, un boccale di grappa, ‘na birra che galleggia solitaria fra la sua schiuma, l’inclemenza della stagione.
Qualcosa di strano colgo nell’aria, talvolta mentre l’alito si condensa dentro il treno, mentre la gente è indaffarata e stronza, c’è qualcosa che per me risulta a tratti criptico. So che non è lei, il suo strascico si cala a terra e via… non è la nostalgia. Ma un sacchetto di perle cinto alla vita, perle bianche e nere, ricordi lontani, un cuore in partenza, la mia mente che vaga nella sua prigione. M’hanno arrestato il briciolo di fantasia.
E forse là, in Siberia, dopo aver valicato gli Urali imbiancati, troverà quello che sto cercando.
Vado alla fine del mondo.
Vado a vivere nello stretto di Bering!
Sì là, aprirò già che ci penso una taverna. Così il brandy, il liquore e il grappino me li faccio da soli. Un cappello da pistolero a coprirmi la visione incantata.
Questo vi dico. E questo farò.
E ne rammenterò la via per sempre. La via che mi porterà alla ragione, perché lo so che non c’è niente di più struggente che udire il richiamo delle onde che si frangono contro i ghiacci.
E se lo struggersi dell’onda, la schiuma portata con sé e poi subito svanita, che è come togliere un lenzuolo, spirerà fin’a me le sue venture, i suoi sguardi che hanno occhieggiato altrove, traghettato nel mistero silente del mondo… ecco, se lei me li dirà non basterebbe altro che quattro fogli qua e là, seppur si può una macchina da scrivere, e scriverò.
Sono un poeta maledetto.
Uno scrittore bastardo.
Bastardo.
Mi piace il suono che questa parola forma, poiché inizialmente s’incaglia fra i denti, poi scorre fronzuta vibrando un poco.
E la dirò, serbando in eterno la visione dei tramonti a nord-est. La bussola segnerà la mia fine, lì seduto. Arroccato su un’altura di ghiaccio che si trova alla fine del mondo, nel suo orlo, si ricongiunge all’Alaska. Nel suo vorticare che pare infinito si coglierà prima o poi la melodia della mia vita, e lo sapranno come è andata e come andrà, come non so nemmeno io.
Forse, una lacrima, un bacio al sole infuocato, arso nel suo aspettarmi, risanerà la mia sete di storie. Sete che in sé vorrebbe scorrere nel tubo della sua esistenza, ma c’è qualcosa che la blocca, le tarpa le ali piumate. È un tumore, lo devo scacciare, devo sciogliere il sigillo. Poi, sì, c’è qualcosa che s’intravede oltre il cappello da cow-boy, che stona con tutto il contesto, è fragile figura femminile, divina musa ammantata d’alabastro, pezzi di luna in bocca, li mastica con orgoglio, il viso girato, uno schiaffo andato a segno dall’uomo tradito.
Lo so, sembra un canovaccio. Uno di quelli stilati da un altro, un altro che come me non ha più ispirazione, o quantomeno l’ha tappata. Un regista cattivo. Muove i suoi burattini senza pretese, li porta alla morte, sul ciglio del precipizio in bilico fra morte e vita, poi una spinta. E sei senza ali.
Ma lei è là. Prima l’avrei descritta così…
“Raccoglieva conchiglie, piccole lacrime, desideri che non volevano volare, aliti di gioia, cumuli di sabbia messi in bocca per saggiarne il sapore crudele e per morire.
Raccoglieva conchiglie, così per gioco, le metteva in un sacchetto, le vendeva o le faceva giacere in una mano, a coppa. Tanto per osservarsi a uno specchio crepato, sembrava pazza, un demone del manicomio apparso dopo averne fotografato il corridoio deserto.
E ne osservava il paesaggio, distrutta, affranta e con gli occhi persi chissà dove, forse nel nulla, in qualcosa di inconsistente. Gli occhi polari, parlavano di quello che vedevano, sulle rotaie dell’Eden scorreva la natura pura, mai artefatta nelle piccole lucciole che affioravano dal terreno, che erano case. Uno schiocco di dita, cade a terra come una brocca, si desta dal suo sapere già mendicato fin troppo.”
Me la guardo, sì, me la divoro con gli occhi spenti. Quasi con falso interesse, una sigaretta in bocca che esala la sua esistenza, che si consuma nella sua stessa cenere – poiché siamo nati cenere e cenere moriremo – , il cappello da pistolero che offusca la visione, ma che m’induce a studiarla sempre più.
Lei, col rossetto di un’attrice, un bacio su una lettera, comunque l’inevitabile segno d’amore lasciato in eredità forse per dar guai. I capelli lisci, come seta, corvini. Nastri sottili e messi sciolti, mossi da quel venticello, non mi guarda… osserva il suo paesaggio, il finestrino aperto, il respiro condensato nel freddo. Abbiamo già trapassato i monti Urali. Indaffarata, a modo suo a prendersi il fresco, un pallido sole reclamato dall’oltretomba, su un cielo troppo limpido nel quale ti chiedi se è davvero inverno. E intanto il rombare incessante del treno, la gente che grida e schiamazza, i taciti assensi, quattro carte da gioco buttate qua e là, ricordi messi all’asta in un giorno qualunque.
Lei, con le guance che sembrano gonfiarsi, perlacee, marcate da una sorta di cerone. Lei che si gira, mi ostenta un sorriso, fa quasi un inchino col capo. Un saluto, e poi tace, il sorriso che non se ne va. Frattanto, agogno ai suoi occhi, voltata fronte a me, gettata sulla parete di finto legno, qualcosa di lustrato, ferro decorato. Accovacciata nel suo montone, il mento affondato nel visone folto, sporcato; gli occhi li vedo solo ora, sono un glicine stinto, qualcosa di nuovo che sa sorprendere, un bagno di lavande, ci sono ortensie (le mie ortensie) che annaspano felici. Il taglio ben delineato, aperto, una finestra spalancata sul mondo. È timida, la mia lei, mi spaventa che già me ne sia appropriato, così tutt’un tratto, diventa di mio possesso, manco lo sa.
E intanto scorrono i giorni, la neve fiocca fuori dal finestrino lasciato aperto, lei non si prende la cura di chiuderlo col semplice gesto delle sue unghie colorate, e non ci parliamo. Mai. Ci spiamo, immersi nel nostro studio, attenti ad ogni cosa che consideriamo insolita, anormale? O forse semplicemente fuori del nostro ragionamento, presto anch’esso ne diventerà parte integrale.
Non ho il coraggio di parlarle. Sono stanco, per quei giorni, passati in fretta e furia, consumati fra un carrello colmo di snack, o la cena servita, una bevanda e un’occhiata alla mia amata. Chissà se prima di scendere le proferirò qualcosa, magari mi farò dare l’indirizzo… le scriverò le parole infinite che non ho potuto dirle, parole che non so, ma verranno e ne sono sicuro. C’è troppo in lei per lasciarmerla scappare così, come un passero prima preso e poi liberato, se ne va via senza nemmeno il tempo di dirgli addio. Ma stavolta non sarà così, stavolta gliela faccio vedere io… parleremo, stipuleremo un contratto per la ragione.
Talvolta, passano i giorni.
Col viso illuminato dai soffusi lumi in alto, sembra una matrioska. Un bambolotto di porcellana con la faccia tutta crepe, fatta a pezzi palmo a palmo. Poiché ella aveva perfezione sul viso lucido, l’anima nascosta dal cappotto trasudava disperata, come un'onda che si rifrange contro la scogliera di ghiaccio frastagliata sotto lo sguardo silente e argenteo del vespro.
«E cercavo, su nel ciel, qualche nuvola che potesse indicarmi la perversa via della ragione» dico. Quasi esaltato, sottovoce, un sibilo di speranze. Ed ecco che lei se n’accorge, volta verso di me sorride, seguo le sue labbra muoversi per infiniti istanti.
«Bella frase» con voce rotta, vagamente sarcastica.
L’assaggio la sua voce, per quel poco che ho è sentito è liscia – come seta – , scivola morbida, d’improvviso diventa cristallo.
« Appunto, ma…» proseguo, e m’accorgo che stiamo parlando. Con l’occhio traghetto verso di lei, ed è divertita. Forse, chi lo sa, sto riuscendo in un intento a me semisconosciuto.
«Ma? La storia?»
«Che?» sussulto, il mio cuore ha i trampoli spezzati e fra poco casca.
Forse ha capito, a volte l’ostacolo più duro risulta quello più facile. Insomma, in ogni atto c’è sempre un principio di magia. Qualcosa occultato dal cuore, che ancora coccola i nostri pensieri più segreti. Prestarli, forse è un nuovo granello di sabbia in meno, d’altronde la memoria è un mare di sabbia. Viene lambita dal mare, divorata da esso, scivola, quella tessera del puzzle che hai perso per casa.
Lei accenna un sorriso dipinto di ironia, illuminato da quel fervore, quella goccia d’amore che mi ha trapassato.
«Continua» mi dice, pronta ad accogliermi, quest’estraneo. È proprio vero, che trovi tutto, il segreto sepolto, dove meno te l’aspetti.
«Non ci sono nuvole, oggi, a coprire il mio cielo»
«Ah» ne sembra dispiaciuta. «Forse devi solo aggrapparti ai palloncini d'aria dei tuoi sogni... e lasciare che ti portino più su, là dove potrai scorgere la tua nuvola.» la voce è smorzata, nessuna timidezza, il sorriso sciolto mi invita a continuare. Forse, mi comprende.
«Il problema è questo, non riconosco i miei sogni. Sono facce indistinte e tutte uguali, tutte grigie.»
«I tuoi sogni sanno volare?» domanda con un sussurro, quasi non volesse interrompere la melodia che si intesse in sordina fra i due.
«Gl'hanno tarpato le ali»
«Sanno... nuotare?»
«Annaspano»
«Quindi galleggiano. Ma non nuotano, deduco»
«Deduci bene» sospira, è forse un angelo, la visione di un cherubino messo lì per caso. Per dar fastidio, forse.
«Sanno di esistere, almeno, i tuoi sogni?» mi domanda, dovrei dire di sì, immagino. Non sono il tipo.
«E se ti dicessi che stanno decedendo?
«Ti direi… che esistono. Sì, esistono. Sanno di esistere, ma non riescono a portare a compimento il viaggio fra il loro mondo e il mio. Troppo piccoli?» perché, adesso, la mia voce suona come un lamento disperato?
«Sarà l’aria di qua, che non gli è congeniale» aggiunge, fra noi, nel nostro discorso, c’è una falsa ironia, poeticità andata a male, serietà che fra poco s’incrina.
«Può essere, ma intanto… intanto che dovrei fare? Marcire suppongo»
«Quello che devi fare è quello che stai facendo. – Allunga la mano, mi indica fuori, un lupacchiotto accucciato che spia il treno curioso, un uccello che vola, c’è un fiore, un odore di ortensie appena piantate. – Scrivi di me. Mi chiamo Anna, se vuoi ti racconterò la mia storia.
«Sottovoce, per non far rumore
«Per lettere… scritte a mano, una penna di quelle antiche, con le piume. Inchiostro nero che macchia la pagina, troverai pure lacrime versate sul foglio, se avrai lo sguardo attento»
«Non posso, Anna, non sarebbe giusto. È come impicciarsi degli affari degli altri, li racconti poi a tutto il mondo»
«Allora racconta di te. Di come un singolo incontro, di noi che parliamo mentre il treno cammina, di come sottovoce stiamo intessendo la storia di un amore lontano, troppo per essere descritto da una cartina geografica. Brucia quel pezzo quando ne sei stanco»
E manco m’accorgo, che non le ho detto grazie. Che il taccuino è sfogliato dal vento, scrive lui stesso la storia per me. Lettere infinite, lettere al cielo.
Scendiamo. Mano nella mano. Poi le la scioglie, sfiora con una carezza gentile la mia borsa a tracolla, sorridendo scherzosa. Apro la mia bocca verso di lei, un semplice sorriso troppo grande, quando lo chiudo è scappata verso quello che la inghiotte famelico, un baluginio corvino fra nebbia e foschia.
«Grazie» si perde fra il vento, una lettera spedita e mai arrivata.
La borsa trabocca di fogli scritti, di rovi spinati messi lì per provare l’intenso, c’è pure un’ortensia che bacia un foglio bianco, inchiostro nero. Proprio questo, che scivola via, una foglia incantata, quelle con cui le streghe vergavano i loro desideri per poi mandarli al vento.
Si perde in alto, il riso della neve beffarda mi coglie in pieno, una lacrima mi solca il volto.
La memoria è un mare di sabbia.
E guardandomi attorno, con lo sguardo perso all’orizzonte, sono un romanziere.
Scriverò del mio Eden, di lei, di come mi abbia concesso le sue parole, la mia linfa. Della fuggiasca emozione che ci ha accomunato, dei sorrisi che abbiamo assecondato, del nostro amore celato. Altri fogli s’aprono a ventaglio sulla neve, si impregnano di acqua, un’ortensia fra loro. Spicca raggiante col suo violetto attenuato – la mia ortensia, i suoi occhi su di me, ancora una volta – , il segno che non siamo mai soli. Il segno è proprio quel granello di sabbia, disperso nel suo mare, portato dal vento nel senno dell’onda ancorata, a fare di noi la differenza.
Oh. Dio.
RispondiEliminaDa quanto aspettavo un racconto così... da sempre forse, da mai, aggiungo. Hai superato le aspettative? Mi hai rapito l'anima...?
Sei davvero un romanziere, no, uno scrittore... un "emozionatore", azzardo, sbirciando il mio cuore che si riempie orgoglioso di ogni tua singola parola. Bravo.
Neve e sabbia, chi ci avrebbe mai pensato? Neve e sabbia, cos'è? Sabbia gelida e bagnata... saprà ricordare il mare o la steppa, la spiaggia o la baita? Bravo.
E poi, scorgo che alla fine è davvero così, che mi hai letto dentro, che mi sento davvero un demone dall'aspetto di angelo, qualcosa di strano, "il difetto del mondo". Un difetto che si ama per quello che è.
Questo racconto è il mio Eden, quello che, sta sicuro, un giorno riprenderò in mano per leggerlo, amarlo, e ricordarmi di te anche quando la sensazione del tuo sguardo sul mio corpo sarà ormai svanita.
E se penso che una piccola goccia di tutto ciò... potrebbe essere colpa delle mie frasi di ieri sera, erro ancora, sbaglio, a dire che son contenta d'averle dette.