venerdì 15 ottobre 2010

Il fuoco di Vesta

~ Il Fuoco di Vesta ** ~

- La PenitentE-

Il fuoco di Vesta, - La Penitente -.

2- 30 gennaio 1150. 1° ciclo della Luna del Lupo.

02:30 Hrs.

 

Le fiammelle si trastullavano liete, lambendosi un po’, con le lacrime che stillavano sui dorsi ingialliti, ombre di luce s’allungavano sulle pareti di grigia pietra, mentre il loro respiro andava sfumandosi sui volti ombrati del Convento.

 Anime d’apocalisse strette nel cuore, avanzano per la schiera di ceri incesi, intinti di rosso scarlatto, com’a ravvivare i sogni di passione ingrigiti e marciti a fondo nell’anima. Forse per voler reclamare spiriti dormienti sepolti nell’Ade, avvolti tra le ardenti cortine, a sfiorare il mondo dei vivi, per far rifiorire le rose dal sangue. E danzavano! Le anime, vestite d’opale, con lo sguardo vivo perso nei ricordi. Ossa fra le mani, e il sorriso del carnefice con le labbra colanti di sangue. Ossa per scacciare gl’influssi maligni, per batter d’armonia i sensi al risveglio.

Black_Rose La chiamavano Signora dei Corvi. Quella donna, l’Abbadessa, col vestito da suora nero ferale. Era colei che sonava le campane a morto all’ingiunta dei Vespri, dodici rintocchi per calare nell’incubo le sorti funeste del giorno, aprire la cancellata di ferro ai Demoni incapaci.

Madame Ravens pareva una rosa d’inchiostro sparuta. Taluni dicevano che era quella stessa rosa nera che si trasfigurava nell’essere colta in una fiera d’inferno. Fiera per scindere le Vestali, col flagello di quel nome, e il segno del casto annullarsi divino. Sapeva come sa un soffio di polvere al passato, come guardare il tramonto dal fronte del mondo. E ditemi, non sa forse di sbagliato, non induce ad errare nell’ingiusto gorgogliare della fede, che nera scola vischiosa sui muri e avvelena donne che prim’erano amanti?

Uno squarcio di luce. No, ma che dico! Sarà un dono del cielo, il riflesso di vita propria d’una perla adamantina a traversare l’altare, sul pallido corpo disteso di un’indemoniata Vestale, nudo, lacerato dal velo d’oscurità, quasi unghie si fossero avvicinate a squartarne deliziosamente le algide carni, ferite che di luttuosa paura s’imprimevano leste.

Denudata dalle proprie vesti, scarnificata da un fuoco di Vesta, una croce rivoltata incisa trai seni bianchi come pellaccia di cincillà, stringeva uno stelo di rosa unghiuto a pungere le labbra inasprite dal sangue.

 

* * *

 

Edvige assaporò le fredde brame della Cripta. Discesa prima sulla chiocciola di scalini scuriti da una candela cadutacrypt bianca anni orsono, che getta il suo totem esangue lontano. Edvige la riaccese, imbevendola nel calanco di un teschio scolpito nella parete, che fumava puro incenso perverso nei suoi occhi ch’eran braci investite dallo strascico dell’inverno. E pensando che forse i teschi che simboleggiavano così candidamente il male, non erano forse il Convento delle Flagellanti o la Carcere, che dir si voglia, a essere il seme del male che per fede s’aggrappavano a una Dea di marmo.

Edvige fece uno scongiuro per il pensiero maligno. Quasi vergognandosi lo rimosse come una penitente nel confessionale. Ora, nelle mani stringeva gigli bianchi orlati di brina e il cero consumato dal soffio opprimente di un’anima chiusa.

Le sue vestigia si tratteggiavano quasi come nuvole incupite su un cielo spettrale, sull’impiantito. Parevano il drappeggio di un sari antiquato, che per l’usura si stinge in quel grigio malato, malato dagl’anni. Grigio polvere, colpito da uno stelo di luce cromato, forse da una fessura della volta marmorea vestita di muschio. Muschio verde, come le rane del pozzo, o un’aurora che mortale si fa strada fra gli angeli che cingono i lembi del fato.

La Vestale, prigioniera del Convento, aveva il capo avvolto in uno scialle nerastro, lacerato come buchi in una ragnatela. E portava il freddo nelle ossa, scaldate dall’ossimoro di questo, o dal battito del cuore e della fiammella che fatua s’apriva ad artigliare l’Antimateria. Sì, perché Edvige la vedeva, cospargere il mondo, nodo di promesse occultate allo sguardo di un uomo confuso. Come vedeva l’Anima, che silenziosa coi capelli di lana indorata, filati da un vecchio fuso della vecchia ch’inganna, si concedeva d’incidere il suo solco nell’aria; un fregio sbiadito nello sguardo contento di bambina giocosa. Ah, quel piccolo eone, come il riflesso di un diamante, ancora cavalcava la scia, inseguendo il filare di bare silenti; urne di bestie sprezzanti, gesta di lussuria ad invaderne l’epitaffio caliginoso e scorticato. L’anima, muta e sorda come una bambina s’era persa nel suo allietarsi, nella parvenza ch’aveva valicato un qualsivoglia portone dell’Incubo.

Nella semi oscurità delle bare vestite di fiori secchi, che si sporgevano dalle croci innalzate nei mausolei arcuati, al loro splendore mascherato dalla fragile decadenza, le labbra di Edvige proferirono verbo, o preghiera, rammentando i grani bruniti del rosario al polso. Ed ognuno era come una sferzata in pieno viso, il graffio di una belva contorta che dipingeva la visione di un comandamento crudele.

Uno. Come il sangue che sgorga dal voluttuoso sognar l’altro mondo.

E l’altro mondo, Edvige, l’aveva visto. D’inverno ululava di lupi invecchiati, nascosti su un’altura canuta simile alla barba di un uomo. E aveva vista Syria, scontare le pene. Martoriata dall’Abbadessa che con l’Athame, ne aveva lacerato gli arti, sopra l’altare.

Due. Come desiderar l’ardente bisogno di voluttuosa passione.

Perché, Edvige, lo sapeva. Le aveva viste, profanare il cuore di donne alla ricerca d’un simbolo, e a volte l’avevano trovato, come le Vestali solevano narrare ai diari di pallidi sogni d’amore. Perché Edvige lo sapeva cosa capitava a chi… desiderava.

Le sue parole si frammentarono, recise dal lucore di un raggio posato sulla bara, dove il coperchio era obliquo, i sigilli tolti. La croce mozzata, come un pezzo di ghiaccio dal respiro privato dal sole.

Nella Cripta, il silenzio regnava ardendo negl’astri dei morti. Quasi la loro anima avesse ancora qualcos’altro da scontare, e giacevano reclusi dentro quei mausolei ornati della ricca essenza della fine. Dormivano nelle loro carni putrefatte, tra le ossa di cenere, e ne aspiravano l’odore, come a sniffare droga. A ricordar come in fondo siamo solo cenere. Cenere grigia, come polvere vecchia, come ricordi persi nel vento, portati dal vento. Il nostro corpo gira nell’aria, è preda della dolce melodia di un carillon stonato. Il carillon della vita, i cui ingranaggi son pervasi da oli scarlatti, color di sangue.

Cauta, percorse con la candela consumata nelle sue lacrime, nel suo pianto di lamenti cerati, ciò che le restava per arrivare alla bara scoperchiata. Col corpo gelido, scosso dai brividi del suo compito, e dal mesto silenzio dell’annullarsi di una vita.

E c’era.

Quella sagoma.

Quasi lo stesso giglio orlato di brina sanguigna.

Sangue secco.

Sangue rappreso e vecchio.

Aggrumato fra i tagli di pelle.

E fors’era un tocco di vivace colore dal quel corpo vestito d’aura bianca.

Bianca.

Come la morte o la sofferenza.

Perché non c’è più bianco della morte.

Del nulla.

La candela cascò, scivolando fra le dita e soffiando la polvere sul pavimento, mentre la cera divorava famelica tutto, subito spegnendosi. E anche i gigli, portati come lo stendardo di un calvario, parvero avvizzire. E i petali staccarsi, con ferocia, in quel gesto ove l’innocente fanciullezza si tinge di un nero che bolle.

La candela cascò. E i gigli pure. Come gioia espressa all’illuminarsi di una vita.

E la candela cascò. Di nuovo.

Di nuovo.

Ma quegli occhi aperti, come lanca di un fiume stellato, non cascheranno mai. Forse resteranno a guardare oltre la pelle, dove la vista si blocca, ma l’anima s’incontra sposandosi nel suo clangore di emozioni.

 

* * *

«Stai bene?» Edvige guardava le lame di luce trapassare la finestra, dove ancora orme lascive di neve cercavano di contendersi la salvezza. Oggi il sole piangeva, spuntava come un dente di leone fra nuvole affrante dal gelo. Il sole, oggi, stillava odio e amore, follia e redenzione.

C’era un corpo di marmo, dalla bellezza pietrificata nel suo scorticarsi crudele. Eppure, c’era del fascino in quella mutazione del corpo, sfigurato dalla penitenza. Syria aveva una veste di lana, filata nell’indiscrezione di un camino. Bianca, come la lana. E una coltre di fumo, le malie di esso che s’inerpicavano per la gola, speziato di cannella e allori, con la tazzasmozzicata dall’usura. I suoi occhi dicevano più di quello che l’anima osava custodire.tea

«Le Anime Bastarde…» le labbra tremavano, foglie di un autunno mai esistito, smunte nel confondersi della pelle alabastrina. L’aria si condensò spirando fra i capelli castani di Edvige, ch’apparivano smossi da un vento dispettoso, nella loro delicata tinta. Ed erano lunghi, intrecciati come riti di streghe.

«Sono tornate» esalò visioni e momenti di bambini sanguinanti, preghiere nascoste recitate a occhi che non conoscono il perdono. Teste di plastica, crani svuotati nel candore della morte, su un letto di sabbia scarlatta.

«Dimmi… cosa vedi» Edvige passò preoccupata il dito sull’orlo della sua tazza, sussurrando.

«C’è il sole, hanno i vestitini blu, come piccoli bambini innocenti…» prese un sospiro, agguantò l’amo di luce protratto nel buio. «Ho… paura»

«Oh, Syria. Dimmi se c’è dell’altro, te ne prego»

«Seguono la scia, intoccabili, pietrificati, è una processione. Non c’è più niente, spariscono, forse… i cani! E mani, che grattano un muro» Syria aveva gli occhi spalancati nello sconcerto di quelle visioni, avvicinò la tazza immergendo la lingua, cercando conforto nella calura scottante della tisana. Ritrasse la lingua infiammata, posò la tazza sul tavolino d’acero.

«Ti senti bene?»

«Non molto» parve riprendersi, soffiando gli animi nel flusso del suo palpito raspante. «Non potrò riprendere le lezioni e il lavoro nelle cucine. Penso che questo sia giusto, Edvige, vedrò se m’accettano in biblioteca. C’è qualcosa, e se c’è qualcosa è colpa mia»

«Cosa pensi di trovare in biblioteca?»

«Le Anime Bastarde, e qualcosa sul mondo al di fuori del Convento. Non temere, Madame De la Croix è vecchia e di certo non bada molto a quello che accade, e soprattutto accetta sempre gli aiuti. È l’unica a cui si può farla sotto il naso» completò, rassegnata, con il ghiaccio negli occhi crepato.

Edvige s’alzo, con un mezzo sorriso allargato sul volto, intriso di una stentata gioia, troppa malinconia e terrore mal represso.

«Va bene, allora vedo di andare, le preghiere stanno iniziando. Sta’ attenta! Madame Ravens ti verrà a cercare. Buona convalescenza in biblioteca!»

«Edvige… grazie. Se non esistessi tu, nessuno sarebbe venuto a riprendermi dalla Cripta»

Edvige attese sulla porta, le dita strette sulla maniglia d’ottone ambrato, percorrendo i fregi che essa ostentava, impolverata anche lei, come tutti sepolta sotto una patina opprimente dell’ingannevole silenzio.

***

Nda: Scusate se non ho postato ieri, ma ero concentrato sul lo stile. Troppo pesante e ch’annoia. E la trama, morta. Spenta, e che va a passi lenti. Nel terzo capitolo lo stile migliora, alleggerito, visto che l’ho già scritto. E nel quarto la trama finalmente parte. Ma nelle revisioni finali sfoltirò questi capitoli, aggiungendo caratteristiche per intrigare il lettore.

Spero di farlo.

Saluti.

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