Ci sono pensieri, momenti fermi, bloccati e dissolti. In questi giorni capita di riflettere e pensare, di aver – forse – trovato la chiave di volta per riudire le note scricchiolanti di quel carillon... quel carillon che in fondo abbiamo un po’ tutti, nascosto in un angolo, che non s’apre nemmeno più.
Ripensavo a un vecchio amico. E pensavo all’autunno, che ci veste e ci sveste, e ogni volta ci ricuce addosso abiti troppo stretti, sottili come pensieri indiscreti, o forse larghi come ventri di madri. E allora ci contendiamo la morte, annaspiamo nel nostro regno di pieghe, abiti, foglie marce. C’è il tempo in cui bisogna fare la muta. C’è il tempo in cui siamo ossa d’amore corrose da un rintocco di neve.
E man mano ti rendi conto di quanto di tutto questo è andato, di quanto vorresti riafferrare, sfiorare il bisbiglio dei tempi perduti con una certa nostalgia che è come un abbraccio di coperte durante una notte gelida. Di quanto di tutto questo ha un’ebbrezza segreta che vorresti riprovare. Ma solo per un attimo. Ho stretto addosso ai miei giorni respiri più corti, finché non hanno avuto più cuori da far battere, non hanno avuto più silenzi da pompare, che in realtà eran chiacchiere. Sono qui, ho chiuso in uno scrigno tutte le forme di carta, ritagliate col sentore di un bambino dell’asilo, col ricordo della forbicina dalle punte arrotondate. Ho paura di riaprirle; ho paura che tutto possa investirmi, ho paura che non mi basto più. Ho paura di tutti i piedistalli di cristallo che mi hanno trattenuto in bilico prima, con la sicurezza di poi di non cascar mai – coi sibili dei per sempre – , e ho visto tutto incrinarsi, inclinarsi, dopo, sottratto come la mano veloce di un ladro bambino. Ho paura che possa cadere pure adesso. Ma oh, che disgrazia! Cos’è, nulla? Non so cos’è. Non so cos’è la terra straniera della mia stasi, quel lago di ghiaccio che col tempo m’è diventato sempre più amico.
E poi sei arrivata tu, lei, l’altra lei. C’è stato un crepuscolo, ci sono state le nuvole alle cinque del mattino, quelle che cenere su un bagno di tenero sangue. C’è stato il preludio dell’amore. C’è stata la vita, la morte, lo spogliarli di tutti i filamenti strettimi in vita.
Ho imparato a scrivere. Ho imparato a concedermi a tutti i piccoli piaceri del mio carattere, ho imparato a sfruttare i miei peccati, ho imparato a non sapere qual è la mia paura. Ho paura di non aver capito, solo questo. Ma tutto ciò ha un’astrattezza che confonde. Ch’è solo fumo tra le mie braccia.
Ho capito di non avere più certezze l’attimo prima, quello dopo ero afflitto dalla semplicità di un attimo fa, che avevo imbrogliato tutto me stesso.
Ho imparato che le certezze sono un pugno di miseria nelle mani degli illusi.
E non ho imparato niente.
Ho imparato a respirare, quel poco, a essere falco. A essere falco in gabbia. A smuovere la mia testa tra le sbarre sottili, a sguazzare nelle mie ceneri fredde. Ho allegato al mio cuore un po’ di sentimento.
L’ho rovesciato sulle dita. Sulla carta immaginaria di questi schermi.
Scrivere fa male, fa male il fatto d’indossare tutti quei fantasmi. Fa male il fatto d’indossarli senza sapere perché. Scrivere non è solo per se stessi, perché senza gli altri non si potrebbe scrivere per noi. Se non senti una storia, se non senti la vita, è impossibile promettersi qualcosa. Il mio amico di blog, ora buon’anima, scomparso come quasi tutti gli altri, rimuginava sull’essere inconcludenti. Ho imparato questo. Ho imparato a vedere diverso. Ho imparato che per finire le mie storie, ci devo credere veramente. Ho imparato che non le finisco per me, ma le finisco per qualcun altro. Le scrivo per qualcun altro. Per l’amore, per l’amica, per un sogno. Perché se è no non saranno mai nostre. Campare tutto ciò in aria, tutto questa fantasia, queste storie scritte… Devono pur appartenerci, anche solo un po’. E per essere nostre devono regalarcele. Regalami una storia. Questo bisognerebbe fare a Natale, per il compleanno. Regalami una storia. Che sia un bacio, una carezza, un amore, la storia di un dolore. Ce l’hanno regalata gli altri, inconsapevolmente, e l’abbiamo mutata ai nostri canoni e abbiamo pensato a loro, che ce l’hanno regalata - hanno regalato loro stessi – quando volevamo gettare tutto. E non l’abbiamo fatto, perché in fondo in fondo li volevamo bene. Ed era quest’amore, questa forza, a darci le parole adatte per completare le nostre piccole storie, per legarvi con un tocco delicato il finale in un fiocco. Che alla fine è solo un nastro d’alba.
Si vive per gli altri. Perché se non ci fosse qualcuno a sorreggerci le ossa, saremmo soltanto un mucchio di polvere.
E se sentiamo il bisogno di riafferrare ciò che sta per andarsene ma non ne abbiamo la possibilità? E se tutti i ricordi, quelli che volevamo chiudere nello scrigno, ci cadono addosso come una pioggia di vetro? E se nessuno scrive storie per noi, nessuno ci regala poesie da vivere? Se non c'è nessuno che apprezza e capisce davvero ciò che scrivi? Se il pessimismo mi assale, i ricordi mi cadono addosso e dentro di me c'è la tempesta, se ho l'impressione di non avere più storie da regalare e nessuno a cui poterle davvero donare?
RispondiEliminaCome possiamo vivere per gli altri se nessuno vive per noi?
Non ci sono esseri dispari sulla terra ;)
RispondiEliminaQuando si è soli è perchè lo si vuole, è perchè abbiamo bisogno d'intimità.
E allora si vive col passato che è cemento alle spalle. Ma qualcuno lo ha murato.